laR+ LA RECENSIONE

Il mistero di Italo Calvino

In ‘Italo’ (ed. Einaudi) Ernesto Ferrero ha tentato di ricostruire la personalità del grande scrittore

L’ultimo libro di Ernesto Ferrero (1938-2023)
(@Wikipedia)
27 novembre 2023
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“Dati biografici: io sono ancora di quelli che credono, con Croce, che di un autore contano solo le opere. (Quando contano, naturalmente). Perciò dati biografici non ne do, o li do falsi, o comunque cerco sempre di cambiarli da una volta all’altra. Mi chieda pure quel che vuol sapere, e Glielo dirò. Ma io non Le dirò mai la verità, di questo può star sicura”: quanto era sincero Italo Calvino nel tentativo, che si sarebbe rivelato vano, di dissuadere la studiosa Germana Pescio Bottino dal proposito di dedicargli una monografia critica? Del resto, era stato lo stesso Calvino, in un colloquio con Carlo Bo di pochi anni prima, a suggerire un approccio proficuo alla sua produzione: “La critica sociologica, invece che muoversi nel generico come fa, potrebbe fare questo di concreto: definire dal suo punto di vista la vera essenza d’ogni scrittore, scoprire il suo vero background sociale che magari contrasta con le apparenze”.

Per proseguire, deridendosi: “Di me potrebbero forse scoprire che sotto, gratta gratta, c’è il piccolo proprietario di campagna, l’individualista, duro sul lavoro, avaro, nemico allo Stato e al fisco, che per reagire a un’economia agricola non redditizia e al rimorso di aver lasciato la campagna in mano ai fittavoli, propone soluzioni universali alla sua crisi, il comunismo o la civiltà industriale o la vita déracinée e gli intellettuali cosmopoliti, o soltanto il ritrovare sulla pagina l’armonia con la natura perduta nella realtà”. Un tentativo di depistaggio? Viene da pensare che non mentisse quando, in una lettera a Claudio Milanini si diagnosticava un rapporto nevrotico con l’autobiografia, dato che rivedere la propria vita fissata e oggettivata gli metteva angoscia.

In ogni personaggio, una parte di sé

Lo scrittore che, venute meno la portata onnicomprensiva e la capacità definitoria di ideologie, assiomi e principi immutabili, si sforzava di addomesticare una realtà caotica e sfuggente sottoponendola a un’accurata osservazione scientifica e rendendola con chiarezza e precisione lessicale, non ammetteva che uno sguardo altrettanto cristallino potesse radiografarne il carattere, le inquietudini e le fragilità. Scrutava senza lasciarsi sbirciare, appollaiato su un albero, come il Barone rampante. Offriva pezzi di sé, come tessere di un puzzle, badando a che non si incastrassero mai, come il Visconte dimezzato. E infine, giocando al Cavaliere inesistente, provocava il lettore: guarda pure dentro di me, non troverai nulla. Quanto era inestricabile, denso di trappole, specchi e vicoli ciechi il labirinto di riservatezza al cui interno amava nascondersi? “Che cosa sta registrato nella scatola nera che non voleva farci ispezionare? Che cosa si estendeva sotto la punta dell’iceberg che ha voluto essere? In definitiva, chi era veramente Italo Calvino?”.

Ha raccolto la sfida Ernesto Ferrero nel suo ultimo libro, ‘Italo’ (ed. Einaudi), dato alle stampe pochi mesi prima di morire. Italo, il solo nome, quasi a promettere un ritratto intimo, sfrondato dei miti dello scoiattolo positivista e dell’allegro folletto cartesiano, su cui si fonda un’immagine pubblica sciaguratamente appesantita da banalità sulla leggerezza che Calvino non si sognò mai di scrivere, né nelle ‘Lezioni americane’ né altrove. Di sicuro c’è che, nelle poche interviste televisive, si vede un uomo a disagio, che vorrebbe essere altrove, una specie aliena rispetto agli animali da palcoscenico, ai consumati showmen che, tra una comparsata a un festival letterario e la registrazione di un’audiolettura alla Alberto Lupo, infestano l’esangue panorama letterario italiano contemporaneo, dimenticando l’ammonimento di Apollinaire sul pavone, che sarà bello da vedere ma, quando fa la ruota, mostra il sedere.

Un orso dalle molte frequentazioni

Ferrero corre il rischio di fidarsi degli indizi disseminati dallo stesso Calvino, che si disegnava distaccato, solitario, ai limiti della misantropia: vivere a Parigi, ad esempio, gli piaceva perché “c’è più spazio per ignorarsi a vicenda. In Italia tutti si conoscono, tutti ‘si vedono’; a Parigi gli scrittori si frequentano solo se hanno un lavoro da fare insieme, nessuno dà del tu agli altri”. Eppure proprio a Parigi, aggiunge Ferrero, Calvino riceveva intellettuali italiani, dal semiologo Paolo Fabbri al pittore Valerio Adami, dal filosofo Giorgio Agamben al giornalista Bernardo Valli, dallo scrittore Gianni Celati al biochimico Massimo Piattelli Palmarini.

E nella capitale francese, in cui ascoltava le lezioni di Roland Barthes e di Claude Lévi-Strauss, amava rifugiarsi nello studio di Raymond Queneau da Gallimard, oltre a frequentare gli altri confratelli dell’Oulipo. E allora: scrupoloso e freddo come il signor Palomar o sbadato e spaesato come Marcovaldo, ingenuo come Pin, curioso e goffo come il Lettore di ‘Se una notte d’inverno un viaggiatore’, dietro quale maschera continua a nascondersi Calvino? Forse dietro l’amorfo Qfwfq delle ‘Cosmicomiche’, ipotesi che lascerebbe al lettore la massima libertà? Nel dubbio, Ferrero ci saluta con l’immagine di “un bambino che aveva voluto restare sé stesso, sino in fondo”. Noi, arrendendoci all’enigma, ci rivolgeremmo piuttosto verso la Ludmilla di ‘Se una notte d’inverno un viaggiatore’: la creatura inafferrabile e civettuola che, col suo mistero, seduce il Lettore.

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