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Vasco Pratolini nella Firenze che fu

A 110 anni dalla nascita del grande scrittore, Valerio Aiolli si è messo sulle sue tracce tra le strade, i quartieri e monumenti del capoluogo toscano

Nella Firenze di ieri
(Wikipedia)
21 ottobre 2023
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"Ha cantato il gallo del Nesi carbonaio, si è spenta la lanterna dell'Albergo Cervia. Il passaggio della vettura che riconduce i tranvieri del turno di notte ha fatto sussultare Oreste parrucchiere che dorme nella bottega di via dei Leoni, cinquanta metri da via del Corno. Domani, giorno di mercato, il suo primo cliente sarà il fattore di Calenzano che ogni venerdì mattina si presenta con la barba di una settimana. Sulla Torre di Arnolfo il marzocco rivolto verso oriente garantisce il bel tempo. Nel vicolo dietro Palazzo Vecchio i gatti disfano i fagotti dell'immondizia...": è la Firenze dell'immediato dopoguerra, lo scenario di ‘Cronache di poveri amanti’, che decretò l'ingresso di Pratolini tra i nomi più apprezzati della letteratura italiana del Novecento. La città non fa solo da sfondo, ma è una protagonista silenziosa, l'habitat di una collettività intorno alla quale, come in Verga (forse il modello più valido a cui il neorealismo potesse guardare), si delineano povere esistenze, legate l'una all'altra da quella essenzialità e sincerità di rapporti che la comune difficoltà di tirare avanti stabiliscono tra gli esseri umani. Ed è su questa precisa topografia, in cui a ogni quartiere e a ogni angolo di strada si lega un intreccio di storie, passioni, umiliazioni e speranze, che Valerio Aiolli si è esercitato in ‘A Firenze con Vasco Pratolini’ (edito da Giulio Perrone): un bighellonaggio che resiste alla tentazione di sfruttare le pagine del maestro come una guida, tenendone però presenti le notazioni per valutare quanto la città sia cambiata e quanto sia invece rimasta uguale, ora che il centro è tutto un bed and breakfast e in giro si incontrano soprattutto turisti dediti ai selfie, "fra rumori di trolley, odori di pinserie e tintinnio di spritz".

Firenze come rifugio

Chissà se c‘è ancora, si domanda Aiolli, la Firenze delle fiere rionali, dei ragazzi che corrono, della rificolona, delle bestemmie e delle strade buie. Chissà se resiste ancora quell'anima solidale e quasi paesana di cui dicevamo, che per il giovane Pratolini, rimasto presto orfano di madre e poco disposto verso la nuova compagna del padre, rappresentò uno sfogo, una salvezza, una casa, riversandovi quel bisogno di dare e ricevere affetto che i parenti più stretti non erano in grado di soddisfare. Anche quando si trasferì altrove, precipitando, nonostante il successo internazionale dei romanzi, in un forte abbattimento per via delle difficoltà economiche e delle vicende relative al presunto collaborazionismo col regime fascista, Pratolini non smise mai di cercare rifugio nei luoghi in cui si sentiva protetto, coccolato, capito: "Mi sta succedendo una buffa cosa", confidava per lettera allo scrittore Alessandro Parronchi, "o forse una cosa normalissima, un gran desiderio di stare un po’ a Firenze, scendere alla stazione e imboccare via de‘ Panzani: a volte è un desiderio struggente, come in questo momento". Ma non solo: l'inusuale flânerie fiorentina tra presente e passato, che conduce Aiolli di fronte al ristorante di famiglia, citato in ’Cronaca familiare‘, offre anche il destro per rimarcare aspetti stilistici sull'opera del maestro: dal frequente ricorso, almeno agli inizi, dei blocchi narrativi compresi tra parentesi, per contornare la trama con inserti utili a definire l'atmosfera, all'attenzione per i dialoghi che, pure funzionali al racconto di vicende autobiografiche, non rendevano la verità delle parole usate, ma l'autenticità del loro senso.

Aiolli sulla scia

Un senso che abbraccia la poesia e insieme la prosaicità di fatti quotidiani portati, scrive Pratolini in un'altra lettera, sul piano della storia, come avviene ne ’Lo scialo', capolavoro dimenticato, affresco della Firenze fascista, con Piazzale Michelangelo e la basilica di San Miniato al Monte a vegliare sugli incerti progressi di una relazione clandestina. In quegli stessi luoghi Aiolli ambienta un ricordo personale: la sera degli ultimi scritti dell'esame di maturità, si ritrovò con i compagni di classe, tra chitarre e giochi da tavolo, finché non arrivarono, sgradevoli e inopportuni, dei carabinieri a verificare che non fumassero spinelli e, non fidandosi delle rassicurazioni ricevute, a cacciarli via. Aiolli è abile a inserire frammenti autobiografici nella sua ricognizione pratoliniana, quasi a voler fare procedere il lettore parallelamente su piani temporali diversi. Tanto, il maestro è sempre lì, a chiosare, commentare, sbuffare, con un "mah!" o un ¨"icché tu ffai". Aiolli ne segue la scia, non gli si sovrappone, non suscita la reazione infastidita di Mario Monicelli ai continui primi piani di Nanni Moretti ("sei bravo, ma ora per favore spostati e lasciami guardare il film"), non si accoda alla fila dei narcisisti, ombelicali ed egoriferiti diaristi che infestano la letteratura italiana contemporanea, ponendosi a misura di tutte le cose e pretendendo di rendere universale fatti insignificanti, tranne che per i parenti stretti, delle loro biografie.

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