laR+ L'intervista

Incontro con Guccini

Ospite a Bellinzona della rassegna ‘Sconfinare’, il Maestrone spazia dalla poesia al passato da cronista, dai colleghi al tifo per la Juventus

Francesco Guccini
(Isabella Perugini)
13 ottobre 2023
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È difficile per un cronista mantenere la giusta distanza davanti a Francesco Guccini: inopportuno e invadente, il fan rimane in agguato, frasi vuote nella testa e il cuore di simboli pieno, e tenerlo a bada costa fatica. “Io a dire la verità sono un provinciale, molto provinciale”, sorride comprensivo il Maestrone, “nel senso che ancora adesso quando conosco per caso qualche personaggio che è famoso in altri campi mi emoziono, come un ragazzo che incontra uno dei suoi idoli, e questo mi succede ancora adesso. Pur avendo la mia notorietà, ho le normali reazioni di un comune ammiratore”.

Con chi le è capitato di emozionarsi così?

Per esempio, mi è capitato con Dino Zoff, che è a sua volta un mio grande estimatore. Siamo pure andati a mangiare assieme un paio di volte. Anni fa in Brasile ho incontrato un mio mito giovanile, Gerry Mulligan, il famoso sassofonista. Era seduto da solo in un bar, non un locale qualsiasi ma quello della Garota de Ipanema. Avrei voluto disturbarlo, ma non ho osato. L’ho guardato da lontano e mi è mancato il coraggio di avvicinarmi. D’altra parte, sono solo un cantante italiano, di cui probabilmente non gli sarebbe importato assolutamente nulla. Potrei aggiungere che mi onora della sua amicizia il cardinale Zuppi, che il Papa manda in giro per il mondo a rappezzare quello che c’è di rappezzabile. Però Matteo è un ecclesiastico e non so se possa rientrare nella casistica. Nell’ambiente musicale, sono molto amico con due cantautori italiani, Zucchero e Ligabue. Ogni tanto ci si vede anche con Vecchioni. Restiamo, in ogni caso a livello di colleghi. Ma se vedessi un’attrice famosa stia pur certo che mi emozionerei.

Prima di sfondare come cantautore, è stato giornalista alla Gazzetta di Modena. Che cosa le è rimasto di quella esperienza?

Forse la capacità, perché abilità suonerebbe un tantino presuntuoso, di allargare o di stringere quello che scrivo in base alle righe disponibili. Quando le notizie erano tante bisognava stringere, perché altrimenti lo spazio non sarebbe bastato, mentre quando le notizie erano poche si doveva allargare, e allora il capo cronista diceva: “Pompa, pompa!”. E così si dovevano arricchire i pezzi di particolari il più delle volte inutili per prendere più spazio. Mi è rimasta anche una certa tendenza allo stile cronachistico e un’attenzione ai dialoghi, elementi che più che nelle canzoni si trovano nei miei racconti.

La sua prima apparizione televisiva risale a un’emissione della Rai del 1967, ‘Diamoci del tu’, condotta da Caterina Caselli e Giorgio Gaber. Lei fu introdotto dalla Caselli col solo nome, Francesco, mentre l’esordiente successivo, suo omonimo, fu presentato come Franco per evitare confusioni. Si trattava di Battiato, che ancora oggi qualche purista preferisce escludere dal novero tradizionale dei cantautori, a differenza di nomi meno conosciuti ma più riconducibili all’impegno politico come Claudio Lolli e Stefano Rosso. Lei ascoltava Battiato? Ne aveva stima?

Onestamente no. Ricordo che a Pavana un vicino di casa che abitava sopra casa mia metteva a tutto volume l’album del cinghiale bianco. Non ho mai considerato Battiato perché non è che mi piacesse. Ha presente quel toscano simpaticissimo, David Riondino? Ecco, lui ha scritto una parodia delle canzoni di Battiato che trovo geniale.

Ricotte panelleniche e cipolle metafisiche?

Esattamente. A distanza di tanti anni, sono ancora in contatto con Caterina, che ogni tanto mi telefona.

Abbiamo nominato tanti artisti emiliani: a cosa si deve questa concentrazione di talenti musicali nella sua regione, in questo simile alla Liguria?

Sulla Liguria non saprei cosa dirle, ma sull’Emilia ho una mia teoria. La nostra è una cultura contadina e una volta in ogni piccolo gruppo sociale c’era sempre un individuo canoro che cantava o raccontava delle storie, spesso accompagnandosi con uno strumento, un dilettante che veniva spinto a esibirsi, a suonare la fisarmonica. E così si è sviluppato questo tipo di musicalità della gente.

Un’altra tradizione molto diffusa nell’area appenninica è l’improvvisazione in ottava, su cui lei si è esibito con Roberto Benigni in un’emissione di Arbore dei primi anni 80, ‘Telepatria International’.

L’esibizione che lei ricorda nacque dalle serate trascorse con Benigni nelle prime edizioni del Premio Tenco. L’origine di questa tradizione è toscana e alto-laziale, ma si è diffusa presto dalle mie parti e credo che sia presente sotto varie forme in tutto il mondo occidentale. In Toscana è normale che gente non particolarmente istruita conosca a memoria i poeti del Cinquecento. Ho sentito con le mie orecchie una disputa tra due manovali che discutevano su chi fosse migliore tra l’Ariosto e il Tasso: non avevano studiato, ma li avevano letti. Quando andavano in Maremma a fare il carbone di legna, oltre alla maglia di ricambio si portavano dietro la Gerusalemme Liberata o l’Orlando Furioso o la Divina Commedia, di cui amavano solo l’Inferno.

E Adumas chi è?

Adumas (si pronuncia adùmas, ndr) è un personaggio dei gialli che scrivo con Loriano Macchiavelli. Ma non è un’invenzione nostra: è il nome di un personaggio che è esistito davvero. Si chiamava Adumas perché il padre aveva letto I tre moschettieri di A. Dumas e aveva voluto chiamare il figlio come il libro della sua vita, forse l’unico che aveva letto. Ho visto la tomba di questo tizio: non ricordo il cognome, ma sulla lapide c’è scritto proprio Adumas.

Qual è invece il libro della sua vita?

I libri della mia vita sono tantissimi. Potrei citarle il primo in assoluto che abbia letto. Dovevo ancora andare a scuola e di fatto è il libro su cui ho imparato a leggere, un libro inquietante e misterioso: Pinocchio. Per me è un capolavoro enorme e bellissimo, che ho riletto qualche anno fa, quando ancora riuscivo a leggere, un libro davvero strano, che mi fa pensare che Collodi doveva avere dentro di sé qualcosa che non andava.

(Misterioso: Guccini pronuncia l’aggettivo con un’enfasi tutta sua, che l’ammiratore scalpitante nascosto nel cronista associa a periferie percorse da strade deserte, al misterioso e strano apparecchio di Amerigo, al mondo sognante di Paperino, a un segno nelle antiche carte dei corsari. L’intervista, intanto, prosegue). Ha citato Ariosto e Tasso: del lunghissimo elenco di poeti che cita più o meno esplicitamente nelle canzoni, mi sembra che un rilievo particolare spetti a Guido Gozzano.

Gozzano è uno dei miei poeti preferiti. Ricordo a memoria i versi di Miss Ketty che “fuma e zufola giuliva altoriversa nella sedia a sdraio”. È un buon poeta, ma non è un grande poeta come Leopardi. Un altro buon poeta che mi piace molto è Olindo Guerrini, che si faceva chiamare Lorenzo Stecchetti... Nella ‘Canzone dei dodici mesi’ cito Thomas Eliot e Luciano Folgore. Ma mi piace molto anche Omar Khayyam, che ho scoperto in una traduzione inglese a Trieste quando prestavo il servizio militare.

All’epoca insegnava e la chiamavano professore, mentre oggi i suoi fan la chiamano maestro: è il lavoro che avrebbe scelto se non fosse diventato un cantautore?

Ho insegnato a vent’anni in un corso intensivo di italiano e in un paio di occasioni ho insegnato anche letteratura. Tra l’altro spiegavo in inglese, lingua che non riesco più a capire. Giorni fa ero in un ristorante a Pavana: c’erano due signore italoamericane, mi parlavano ma non capivo nulla. Un mio ex allievo ogni tanto torna in Italia e viene a trovarmi. Alcuni ex allievi si sono tassati per creare una borsa di studio a mio nome che ogni anno manda uno studente americano a frequentare lo stesso corso in cui insegnavo. Quanto alla storia del maestro, bisogna spiegarla: ai tempi in cui abitavo in via Mura di Galliera a Bologna, alla mattina prima di andare a insegnare prendevo il caffè al bar sotto casa. Lì mi chiavano professore. Poi apparve un articolo sul Resto del Carlino, il giornale locale, da cui seppero che scrivevo canzoni, e così quando mi incontravano non sapevano più se chiamarmi professore o maestro. Questa estate facevo le terme a Porretta, dove un gruppo di signori anziani come me mi salutavano:“Buongiorno, Maestro!”. Ma io non mi ritengo maestro, quantomeno non di musica. Io la musica la conosco un tanto al braccio, conosco le note grosse!

Però questo appellativo in cui non si riconosce riflette l’abitudine, abbastanza diffusa, di considerare il cantautore colto come un maître à penser da interrogare su temi non soltanto musicali, dalle questioni esistenziali e filosofiche alle vicende politiche, dal senso della vita alla pace in Medio Oriente.

Succede perché il cantautore si è sempre distaccato dalla figura tradizionale dell’interprete di brani scritti da altri. Una differenza che in un certo senso c’è ancora: pensi alla Pausini che si è rifiutata di cantare ‘Bella ciao’ per evitare strumentalizzazioni politiche... ma cosa vuol dire? La verità è che non ci si vuole sbilanciare da nessuna parte.

Non solo, ma i testi dei cantautori vengono letti e commentati nelle scuole, come si fa col Pascoli o col Foscolo.

Una mia amica ha scritto un libro commentando le mie canzoni in maniera molto seria. Allora ho mandato il volume a molti giornalisti musicali italiani: uno solo mi ha risposto, Bernardini, dicendomi che dopo questo libro tutti i giornalisti dovrebbero cambiare mestiere, perché sono critiche e recensioni molto ben fatte. Alla presentazione di un mio libro un signore mi ha fatto firmare il saggio della mia amica, confessando però di non averci capito niente. E le dirò di più: la mia ‘Canzone per Piero’ è stata menzionata in una traccia degli esami di maturità. Anche dal punto di vista ministeriale sono assurto allo status di poeta.

E ora invece parliamo di cose serie: quest’anno la Juventus riuscirà a spezzare l’egemonia delle milanesi o vivrà un altro anno nelle retrovie?

No, quest’anno non ce la facciamo. Non mi sembra una gran squadra, e poi mi domando: Pogba col doping, Fagioli con le scommesse... Ma tutte a noi capitano queste cose? Però vediamo come va a finire la prossima partita col Milan, perché è importante capire se siamo capaci di reggere lo scontro con queste corazzate, che hanno organici molto forti. Chiesa potrebbe far bene, ma Vlahovic non è che faccia gol con la sicurezza di un Lukaku... Però sempre forza Juve!


Michela Locatelli – Photolocatelli
A Bellinzona con Marco Aime

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