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Lukas Bärfuss e il mistero del fratello koala

Tradotto in italiano il romanzo vincitore dello Schweizer Buchpreis nel 2014, nella traduzione di Margherita Carbonaro

Autobiografico
(Keystone)
9 ottobre 2023
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"George Perry, studioso inglese di lumache, scrisse che fra tutte le strane creature del Nuovo Mondo di cui si era venuti a conoscenza, il koala meritava certamente un posto speciale, e osservando il suo corpo impacciato e goffo, per non parlare della curiosa fisionomia e del bizzarro stile di vita, non si riusciva a capire a quale scopo il grande autore della natura avesse voluto creare un essere vivente di tal fatta. Nessun naturalista, non importa quale fosse stata la sua indole, avrebbe potuto immaginarselo": al termine di un crudele rito di iniziazione, una cosca di sadici scout assegna al fratello dello scrittore Lukas Bärfuss il nomignolo ‘koala’. Più che un battesimo, è la sintesi di un modo di stare al mondo e la conseguente attribuzione di un destino: il koala non beve, ma gli basta la rugiada che al mattino si posa sulle foglie; si nutre di una pianta, l'eucalipto, ricca di sostanze tossiche, abitudine che lo costringe a una vita quieta e sedentaria, dai movimenti ridotti, e che risulta incomprensibile ai coloni australiani, bifolchi gretti, superstiziosi e profondamente ingiusti. ‘Koala’, romanzo autobiografico che è valso la vittoria dello Schweizer Buchpreis nel 2014 (e ora tradotto in italiano da Margherita Carbonaro per L'Orma editore), ruota intorno alla similitudine tra il placido animale e un uomo, il fratello dello scrittore, che consapevolmente scelto di uccidersi, pianificando ogni dettaglio.

‘Preferirei di no’

Un Bartleby educato e riservato, che non si concedeva altri lussi oltre alla gioia segreta di qualche piccola infrazione alle comuni opinioni sul buon gusto. Un ostinato rinunciatario che aveva consapevolmente scelto una vita modesta, in un buco di paesino svizzero in cui ci si parla poco, con pudore, alludendo senza raggiungere mai il fondo delle cose. Una dimensione talmente codificata, claustrofobica e distruttiva da offrire una vita di automatismi a personalità annullate, che tacciono perché ogni domanda può contenere un'accusa, e si raccontano per omissioni, perché l'essenziale sta nel non detto e per ogni apertura può passare un problema: non è un caso che il fratello, o meglio il suo ricordo, attraversi il romanzo come un'ombra priva persino di un nome. Come mai non ha fatto niente per migliorare la sua vita e si è accontentato di un'esistenza misera e stentata in una cittadina pidocchiosa, accelerando con la morte volontaria il lento e inesorabile sfacelo verso cui sin da ragazzo aveva deciso di instradarsi? Anche se "il gesto del suicidio parla da sé, non ha bisogno di una voce e non ha bisogno di un narratore", la domanda ossessiona Bärfuss, al punto che il fratello occupa i suoi pensieri come in vita non era mai riuscito a fare. Gli esempi di Socrate, Catone e Seneca non bastano a nobilitare questa scelta, gravata da uno stigma sociale che resiste in barba alle promesse illuministiche e alle illusioni del progresso: l'uomo non è moderno come vuole credere di essere e la libera scelta di una persona libera, forse l'unica di cui un essere umano sia liberamente capace, si rivela accettabile solo per pochi.

Il suicidio come ribellione

E a nulla servono le elucubrazioni degli studiosi, che per lo più propongono una selezione di casi di suicidio fondata unicamente su criteri estetici, così come a nulla erano servite le poche, stereotipate soluzioni offerte da una società incapace di elaborare il suicidio ("aveva cercato il conforto di Gesù Cristo frequentando le riunioni di una comunità pentecostale, borghesucci dalla mente ottusa che si piccavano di essere in grado di guarire tutto e tutti - problemi agli occhi, cancro al fegato, omosessualità -, nel suo caso però non avevano saputo curarlo dal fallimento"). Bärfuss vorrebbe vederci chiaro, prova a collegare tra loro eventi e cose, supposizioni e ricordi, ma si muove nella nebbia dell'indeterminatezza, a differenza di quando prova a ricostruire la concreta e operosa quotidianità del nonno, un sellaio che lavorava utilizzando oggetti che vengono elencati con assoluta precisione. Una vita, quella del nonno, consacrata e sacrificata all'ambizione e all'operosità: il suicida ha preferito indulgere nella pigrizia, rifiutando in maniera definitiva il lavoro in un mondo in cui solo l'ambizione, l'impegno e la sottomissione al castigo del ciclo di produzione e consumo hanno diritto di esistere. Ed ecco, allora, la risposta, che richiama le considerazioni che aprono ‘Il mito di Sisifo’ di Camus: "All'improvviso capii per quale motivo si evitasse di parlare del suicidio. Non era contagioso come una malattia, era persuasivo come un argomento stringente. Affermare di non capire i suicidi era una menzogna. Al contrario li capivamo fin troppo bene. La domanda infatti non era: perché si è ammazzato? La domanda era: perché vivete ancora? Perché non abbreviate l'affanno? Perché non prendete la corda, il veleno o la pistola, perché non aprite la finestra, adesso, subito?"

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