Il racconto

Jean Louis, che ha solo un braccialetto di perline

Quindici anni e una vita di fughe. Il sorriso e gli occhi malinconici, quando narra la sua storia al bar Byblos

17 luglio 2023
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Non dimenticherò facilmente il sorriso di Jean Louis. E i suoi occhi malinconici quando mi racconta la sua storia al bar Byblos. Non dimenticherò facilmente il suo braccialetto di perline gialle rosse verdi e blu: è la sola cosa che ha, insieme al cellulare comprato con i risparmi sulla paghetta che gli passano ogni settimana. “Campo”, lui chiama quella specie di carcere nel quale la Svizzera rinchiude i minori che arrivano da noi, non accompagnati, per chiedere asilo. E dove sono registrati con un numero.

Jean Louis ha solo quindici anni, ma è più alto di me. Il suo corpo è segnato da cicatrici e pustole. La sua storia? In poche parole è rimasto orfano a pochi anni, cresciuto con una zia che lo maltrattava perché di religione diversa dalla sua – lui musulmano lei cristiana. Non è mai stato bambino, non è mai stato. È vissuto come un cane vagabondo per le strade di Conakry, la capitale della Guinea governata dai militari, come un randagio che si nutre di resti e s’addormenta in un angolo. Fuori dai ristoranti gli danno i resti. Lui vorrebbe andare a scuola, per diventare meccanico: “Un grand mécanicien” dice. Ma in Costa d’Avorio, dov’è nato, ha frequentato solo fino alla terza elementare. E la Guinea, dov’è poi vissuto con quella zia cattiva, è una delle terre dove gli schiavisti venivano, in passato, a trafficare carne umana: li deportavano in cambio di armi da fuoco. Circa seicentomila schiavi deportati in quattro secoli.

Il ragazzino, che è bravo a giocare al pallone sulla terra battuta, gira qua e là per la città senza saper cosa fare. Si sfama con piccioni colpiti con la fionda. Finché lo stana un uomo, che gli dà una mano: un muratore. Lo fa dormire nel cantiere e lo adotta come un figlio. Jean Louis vuole andare a scuola, ma il muratore un giorno decide: attraverseranno il Mali e il Sahara fino alla frontiera con l’Algeria. Tutto bene, a parte le faticacce, i pericoli e il deserto. Ma, arrivati in Algeria, trovano gli Algerini. Il ragazzino ivoriano possiede solo il suo nome, non ha documenti, solo il braccialetto di plastica. Lo prendono, per le strade di Algeri, e lo arrestano.

Jean Louis, qui al bar che oggi è vuoto perché i soci arrivano più tardi per l’aperitivo e quindi si può parlare in pace, a un certo momento si commuove. Parla un francese scorrevole, con un intercalare: maintenant. Il racconto, dunque, è tutto al presente: adesso, in questo momento. A un certo punto si mette le mani sul viso per non far vedere che gli vien da piangere: non è un bambino che piange per niente, Jean Louis, ma questa volta i suoi occhi si fanno ancor più malinconici. Ecco, siamo in Algeria, dormono nel cantiere e maintenant arrivano i banditi con il passamontagna. La notte è nera, come quei passamontagna. I banditi, si sa, rubano tutto quello che trovano, soldi abiti televisori. Hanno un bastone per picchiare e un machete per ammazzare.

Jean Louis non è mai stato bambino, ha il corpo coperto di pustole. E come può fare a lavarsi, dove la trova l’acqua? Ma trova una donna nera, con un vestito colorato, che si prende cura di lui. E allora per un momento diventa bambino e vive in famiglia e gioca con Marco, il figlio della donna colorata. Vorrebbe andare a scuola, ma la scuola non c’è. Allora l’uomo, il muratore misericordioso che l’ha adottato, decide di andare in Tunisia: dove ci sono le barche per i migranti.

Ma Jean Louis non vuole salire su quella barca. Non ha mai visto il mare, ha paura e si batte come uno dei leoni della sua terra. Lo obbligano a salire. A questo punto, qui in questo bar ancora deserto, mi fa vedere le cicatrici sulle gambe. E quando parla della barca si porta le mani al viso: maintenant non vuole vedere. Non vuole vedere sé stesso che beve l’acqua di mare – l’uomo che l’ha adottato è appena morto per aver bevuto acqua di mare. Lui non muore, no, se ne sta sei giorni rannicchiato sulla barca – quante persone su quella barca, venti? trenta? Maintenant il mare è grosso, i cavalloni fanno paura e lui è costretto a bere la sua orina, se vuol sopravvivere. Jean Louis non ha mai bevuto la sua orina e si mette le mani sul viso, quando me lo dice. E poi ci sono quelli che muoiono, cadaveri che vengono buttati in mare, perché sulla barca pesano troppo.

Passano ben i battelli nel mar Mediterraneo: ma nessuno aiuta quelli della barca, ma lasciano che si pieghino su sé stessi e restino come annichiliti, ma li lasciano morire!

Lo scenario cambia. Siamo in Italia. Napoli. Un ospedale, dove lo curano. Il “campo”, cibo gramo, la razzista che discrimina i neri. E poi per lui è difficile dimenticare l’orina, i cavalloni delle onde, i morti...

Jean Louis scappa ancora una volta. La sua è una vita di fughe, non è mai stato bambino, non è mai stato. Nei bassi di Napoli chiede come si fa ad andare in Svizzera. “Vai alla stazione e prendi il treno”. Non ha i soldi per il biglietto.

In Italia sul treno lo lasciano in pace, Milano Como Chiasso. Ma, in terra confederata, la bigliettaia dice: “Se non hai il biglietto non puoi viaggiare”. E lo rimandano a Chiasso.

Maintenant lo fanno spogliare. Resta in mutande, perché magari porta un coltello, un portafoglio rubato, cocaina... Ma lui non ha niente, solo un braccialetto di perline colorate.