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Storia di un desiderio senza tempo

Da Narciso alla realtà virtuale, l’essere umano ha sempre desiderato immergersi nelle immagini. Ne parliamo con il professor Andrea Pinotti

Scomparire nell’immagine è una tentazione che si perde nella notte dei tempi
(Depositphotos)
2 gennaio 2023
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La storia dell’arte ci insegna che l’esperienza estetica si accompagna spesso alla capacità di prendere distanza dalle immagini, misurando il distacco attraverso il giudizio critico e l’uso di un linguaggio sofisticato. Esiste però una tendenza opposta, ugualmente fondamentale, che ci avvicina alle immagini. Le immagini ci seducono, ci risucchiano, esercitando un fascino e un potere di attrazione che sovente non riusciamo, o non vogliamo, controllare. Forse però è proprio la distanza a creare i presupposti per quel desiderio universale, che sa riunire amanti e asceti, di perdere i propri confini per ritrovarsi oltre sé stessi, in uno spazio più autentico, più profondo. Se la distanza è rassicurante, l’avvicinamento è una vertigine conturbante che interroga i confini. E cosa succede se poi, sconfinando, entriamo nell’immagine? Ne parliamo con Andrea Pinotti, professore di estetica all’Università Statale di Milano e autore di ‘Alla soglia dell’immagine’ (Einaudi: 2021), un saggio che con molta intelligenza indaga quel complesso conglomerato di esperienze, desideri, aspirazioni, proiezioni e trasgressioni che stanno alla base di ciò che, in questo nostro ciclo di articoli, chiamiamo le esperienze immersive.

Professor Pinotti, nel suo libro Alla soglia dell’immagine parla delle esperienze immersive attraverso tre parole chiave: scorniciamento, presenza, e immediatezza. Ci può spiegare perché questi termini sono legati al rapporto fra immagine ed esperienza immersiva?

Attraverso questi tre termini ho cercato di circoscrivere le tre principali proprietà di quella classe di immagini che chiamo "an-icone": si tratta di immagini che per così dire negano sé stesse in quanto immagini, per apparire come se fossero la realtà che rappresentano. Per fare ciò devono negare tre contro-proprietà che contrassegnano la nostra abituale esperienza delle immagini. L’incorniciamento, vale a dire la cornice del dipinto, ma anche il piedestallo della statua, o il bordo dello schermo, dal momento che tali dispositivi ci segnalano che abbiamo a che fare con un’immagine. La referenzialità, cioè il loro rimandare ad altro da sé e, in terzo luogo, la mediatezza, il loro apparire su un supporto materiale, che va dalla roccia delle caverne paleolitiche ai bit delle immagini digitali, passando per le tavole lignee, la tela, la carta fotografica, lo schermo cinematografico.

Quando la cornice non viene più percepita come qualcosa che separa, in modo rassicurante, il dentro e il fuori, l’immagine finisce per confondersi con il reale, creando i presupposti per l’esperienza immersiva. Le esperienze immersive sono parte integrante dell’immaginario estetico contemporaneo, ma il desiderio di vivere questo tipo di esperienze è molto antico. Questa dialettica fra il vecchio e il nuovo è dunque una sorta di filo conduttore che accompagna il lettore nella lettura del suo saggio?

Il libro potrebbe ben portare come sottotitolo ‘Storia di un desiderio’. Prende atto del fatto che oggi viviamo l’immersività come un’esigenza diffusa, persino invasiva, se pensiamo che tutto deve essere immersivo: dall’insegnamento delle lingue al nostro rapporto con la tecnologia, senza dimenticare l’esperienza dell’arte (pensiamo alla Van Gogh Experience). Ma al tempo stesso suggerisce che non si tratta di un fenomeno esclusivamente contemporaneo: ogni epoca, con le tecnologie di volta in volta a disposizione, ha sognato di poter tuffarsi nell’immagine, concependo la soglia fra immagine e realtà non tanto come una barriera insormontabile, ma piuttosto come un passo carraio transitabile nei due sensi. Se infatti io mi immergo nell’immagine valicando quella soglia, devo aspettarmi, in modo reciproco, che elementi del mondo-immagine possano emergere nel mio ambiente.

Nelle prime pagine del suo saggio, al capitolo ringraziamenti, lei afferma che la sua indagine è stata ispirata da una leggenda che narra di un pittore cinese che scompare nel proprio dipinto. Di che si tratta?

Si tratta di una leggenda nata attorno alla figura di un pittore d’epoca Tang: Wu Daozi, vissuto a cavallo fra il VII e l’VIII secolo. L’aneddoto circolava nell’Europa degli anni Venti e Trenta: lo si ritrova in intellettuali come Ernst Bloch, Béla Balázs, Siegfried Kracauer. Io l’ho incontrato in Walter Benjamin. Narra della commissione che Wu ricevette dall’imperatore di dipingere un paesaggio per una parete del suo palazzo: non solo il pittore realizzò un dipinto stupefacente, ma vi penetrò per scomparire nella porta da lui stesso raffigurata. Variamente interpretata e messa in relazione con la nostra inclinazione a sprofondarci nelle immagini, questa leggenda ci mostra che il desiderio di cui dicevo è non solo trans-storico ma anche trans-culturale, al punto che lo si potrebbe forse definire un universale antropologico.

A Narciso dedica un intero capitolo del suo saggio. Si tratta dunque di una figura centrale nella sua riflessione sull’immagine?

Ho fatto ricorso a Narciso proprio per alludere a un desiderio che sembra così ancestrale da perdersi, oltre la storia, nelle brume del mito e del suo tempo senza tempo. Narciso è il simbolo del soggetto proto-immersivo, una sorta di archetipo che ci espone, attraverso una leggenda, al desiderio, ma anche alla sua tragica frustrazione, all’impossibilità di un pieno soddisfacimento, e infine al destino fatale che minaccia chi si immerge totalmente nell’immagine. Nella variante raccontata nelle Metamorfosi di Ovidio, il ragazzo, dopo essersi reso conto di essersi innamorato della propria immagine, si lascia deperire sulla riva, e dalla decomposizione del suo corpo nascono quei meravigliosi fiori bianchi e gialli, i narcisi appunto. In un’altra variante, raccontata fra gli altri da Plotino, Narciso si tuffa per abbracciare il suo amato, e trova la morte per acqua. Narciso è anche la porta di ingresso verso la specularità: in fondo, ogni volta che ci guardiamo allo specchio, siamo dentro l’immagine. Ogni qualvolta il dispositivo specchio appare nell’immagine, ci obbliga per così dire a esser parte di quell’ambiente iconico.

E qual è il significato della soglia, termine a cui il titolo del suo saggio si rifà?

La soglia è una figura del pensiero e insieme della realtà che mi ha sempre affascinato per il suo strutturale sottrarsi all’aut aut e invitarci per così dire a considerare il "sì… ma anche". Soglia (di una porta o di una finestra) è sì separazione ma anche connessione. Credo che la mia intensa frequentazione degli scritti di Georg Simmel (uno dei maestri di Benjamin) sia stata incoraggiata proprio dal fatto che questo filosofo tedesco può ben essere caratterizzato come un pensatore delle soglie. Il percorso che ho cercato di condurre nel libro punta a mostrare che l’umana esperienza con gli, e negli, ambienti immersivi – in una parabola che dalle grotte del Paleolitico superiore arriva ai caschi di realtà virtuale, passando per la tradizione della pittura illusionistica in trompe l’œil, per le camerae pictae rinascimentali, per i panorami ottocenteschi e il cinema in 3D – offre appunto un’esperienza della soglia: ci invita cioè a indugiare su quel momento in cui quell’annullamento fra immagine e realtà sembra possibile, ma non si realizza mai davvero completamente. È un invito a godere e temere al contempo della possibilità che non si dia più alcuna distinzione fra reale e iconico.

Simile alla soglia è la porta, anche se le due cose non sono proprio equivalenti. Lo storico dell’arte Oscar Martinez nel libro ‘Soglie’. La cultura occidentale di porta in porta (Solferini: 2021) afferma che "le porte possono essere considerate il nesso tra il sonno e la veglia, o tra la luce e le tenebre, ma anche un passaggio dall’ignoranza alla conoscenza e, soprattutto, dalla vita alla morte". Se in molte esperienze immersive la soglia diventa quasi invisibile, non viene meno anche il potenziale simbolico che la porta ha sempre rivestito in tutte le culture?

Il tema del libro di Martinez, come quello di Marco Biraghi ‘Il libro della porta’ (Pendragon: 2022), è molto simmeliano: uno dei saggi più affascinanti del filosofo tedesco si intitola proprio ‘Ponte e porta’. Scritto nel 1909, descrive due figure fondamentali del modo di rapportarsi dell’essere umano allo spazio, che corrispondono ai gesti intimamente connessi del separare e del connettere. Si tratta di un tema filosofico di amplissima portata, che nasce con la nascita stessa della filosofia: pensiamo all’importanza di queste operazioni nella dialettica di Platone. Le coppie oppositive che elenca Martinez, fondamentali nel loro strutturare in maniera polare l’esistenza umana, sono possibili proprio come altrettante variazioni della soglia: variazioni di un passaggio, di una transizione, di uno sfumare, esse non vanno concepite come delle alternative secche, bensì come dei gradienti.

Dalle sue risposte, si avverte molto chiaramente come il fascino che l’immagine esercita su di noi nasconde l’insidia di identificarci troppo, fino a sprofondare – come nel caso di Narciso – nell’immagine. Da questo punto di vista, ha senso ipotizzare che, oggigiorno, la realtà virtuale possa essere (o magari lo è già) in competizione con la realtà tout court?

La nozione di virtuale ha una storia ben più antica della tecnologia digitale che oggi chiamiamo realtà virtuale, una storia che getta le sue radici nella riflessione scolastica medievale e ancor prima nella metafisica aristotelica di potenza e atto: virtualità è una potenzialità che attende di essere attualizzata. In tal senso la realtà virtuale come la viviamo oggi nella tecnologia digitale è solo una delle possibili modalità con cui l’essere umano attualizza le proprie potenzialità.

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