Culture

Lagioia, un omicidio e gli Oggetti narrativi non identificati

Con ‘La città dei vivi’ lo scrittore barese ricostruisce attraverso la forma romanzo l’uccisione di Luca Varani da parte di Manuel Foffo e Marco Prato

9 gennaio 2021
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Roma, marzo 2016. Mentre Manuel Foffo confessa di fronte agli inquirenti, Marco Prato tenta il suicidio in una stanza d’hotel, con il cellulare che spara ininterrottamente ‘Ciao amore, ciao’ di Luigi Tenco nella versione di Dalila. Hanno appena ucciso, dopo averlo seviziato per ore, Luca Varani, attirato nell’appartamento di Foffo al Collatino. Inizialmente si pensa a un omicidio determinato dalla differenza di classe: due figli annoiati della borghesia capitolina (il padre di Foffo è un ristoratore affermato, quello di Prato un manager culturale) infieriscono su un ragazzo adottato da un venditore ambulante di dolciumi della Storta; c’è persino chi fa accostamenti con il massacro del Circeo. Con quel clima che Andrea Carraro aveva distillato nel racconto ‘Dopocena’, in cui la violenza di tre rampolli dei Parioli si scatena su una borgatara, per di più fidanzata con uno dei tre aguzzini. Poi però emergono altri elementi: i due stavano barricati da giorni nell’appartamento, strafatti di cocaina, e avevano avuto un rapporto sessuale; cercavano una vittima da uccidere, che solo per caso sarà Varani. I media ormai non parlano d’altro. E il caso comincia a ossessionare anche Nicola Lagioia. Lo scrittore barese raccoglie prove e documenti, intervista i protagonisti della vicenda, incontra i genitori della vittima, intrattiene persino un carteggio con uno dei colpevoli; e racconta quella storia in un libro importante ma a tratti verboso.

Una delle caratteristiche più patenti della narrativa italiana contemporanea (o circostante) è la presenza di testi difficilmente identificabili, al confine tra generi diversi, tanto che Vittorio Spinazzola aveva coniato l’espressione di “UNO”: così come esistono gli UFO, oggetti volanti non identificati, il panorama della letteratura del nuovo millennio è ampiamente occupato da oggetti narrativi dalla collocazione problematica, tra i quali figurano testi in cui l’autore propone, raccontando in prima persona, la ricostruzione attraverso la forma romanzo di fatti realmente accaduti, spesso di cronaca nera. Il che rende, tra le altre cose, cruciale (e complessa) l’analisi del rapporto tra l’io narrante e il mondo rappresentato (segnalo che un utile repertorio delle maggiori posizioni critiche su questi aspetti si trova nell’antologia ‘La realtà rappresentata’, curata da Raffaello Palumbo Mosca per Quodlibet). La memoria va quindi subito a ‘L’Avversario’, in cui il protagonista non è il pluriomicida Jean-Claude Romand, bensì l’autore-narratore-personaggio Emmanuel Carrère, che in quella storia di sangue si imbatte e che si interroga sulle possibilità letterarie ed etiche per raccontarla. Non si legge ‘La città dei vivi’ per conoscere il caso Varani-Prato-Foffo (basterebbe fare un giro in Rete), ma per valutare lo spazio letterario che l’autore-narratore-personaggio Nicola Lagioia costruisce per confrontarsi con la vicenda. Ed è, tra l’altro, (anche) sull’ampiezza di questo perimetro che si misura la differenza tra Carrère e l’autore barese, il cui libro, non a caso, è di lunghezza tripla. Lagioia mostra piena consapevolezza letteraria nella costruzione del testo, selezionando tra le fonti raccolte, optando per un ben definito montaggio del racconto, decidendo i cambiamenti di ritmo narrativo. Racconta con dovizia di particolari il momento in cui Manuel confessa l’omicidio al padre mentre i due sono insieme in automobile, oppure avvicina con un andamento a spirale, attraverso movimenti sempre più stringenti, la scena dell’uccisione, forse per mostrare come i due aguzzini ci siano arrivati inconsapevolmente. Soprattutto, però, l’autore è abile nel ritardare la propria entrata in scena (che avviene solo dopo un centinaio di pagine), così come differisce, dopo averla sapientemente preparata, la spiegazione della sua personalissima ossessione per quella storia. Per non parlare della precisione con cui è descritta “la città dei vivi” del titolo, una Roma stremata e smarrita, vero e proprio quarto personaggio della vicenda. Una città che ha due Papi e biciclette buttate nel Tevere; pedofili che attraversano mezza Europa per attirare ragazzini nelle stanze di affittacamere senza scrupoli e scorci di luce meravigliosa. Peccato, in tutta franchezza, che Lagioia su questo versante si lasci un po’ prendere la mano, tentando qua e là qualche improbabile analisi sociologica.

Ancora una volta, come ho già avuto modo di scrivere a proposito dell’ultimo romanzo di Walter Siti (“laRegione”, 21 agosto 2020), la letteratura afferma il proprio valore conoscitivo, la possibilità di indagare la realtà come nessun resoconto giornalistico, pur dettagliato, saprebbe fare. Non bastano l’abuso di cocaina o la repressione della propria identità sessuale a spiegare l’orrore; e forse nemmeno la speculare mancanza di riconoscimento da parte dei genitori (la distanza affettiva della madre per Prato, l’assenza di stima del padre per Foffo), cui i due ricorreranno fino all’ultimo per giustificarsi: non avevamo scelta, per noi l’arbitrio non era più libero. Anche qui, come in Carrère, c’è un Avversario: un diavolo che, etimologicamente, divide e separa, proprio perché i due assassini non sono riusciti a costruirsi un’identità sociale, civile e morale attraverso, prima di tutto, il confronto con l’altro e il suo riconoscimento. È anche per questo che Lagioia sceglie di dedicare pochissimo spazio a Luca Varani: nessuna identificazione con la vittima (sulla questione segnalo il saggio ‘Critica della vittima’ di Daniele Giglioli), perché tutti temiamo di diventarlo, ma “quale ostacolo emotivo dobbiamo superare per immaginare di essere noi, un giorno, a vestire i panni del carnefice?”.

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