Arte

'Garaveee', paesaggi di Marco Scorti

Classe 1987, una dozzina dei suoi dipinti sono esposti nella Sala Balint al Monte Verità di Ascona fino al 18 settembre

Marco Scorti, Golena (2016 MASI, Lugano. Deposito da collezione privata)
29 agosto 2020
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Già vincitore nel 2016 della quinta edizione del Premio Manor Ticino, Marco Scorti espone una dozzina di suoi dipinti, tra grandi pitture acriliche su tela e piccole gouaches su carta, nella Sala Balint del Monte Verità. Qui, più che la quantità delle opere, conta il luogo dove esse sono esposte: che è carico di storia e di memorie, di significati connotati che proiettano questa mostra su uno sfondo lontano in bilico tra ritorno alla natura e utopia. L’ingresso è libero tutti i giorni, dalle 9 del mattino alle 9 di sera, il che può anche permettere di mettere insieme più cose tra cui la visita del Monte Verità nelle sue varie parti (molto interessante il video fruibile in Casa Anatta, anche qui con ingresso libero) e del suo parco che, per vero dire, in più parti sembra assai trascurato e richiederebbe una migliore manutenzione.

Ma torniamo alla breve esposizione di Marco Storti, giovane artista ticinese nato a Lugano nel 1987 che attualmente vive e lavora tra il Ticino e Ginevra, città in cui ha svolto la sua formazione artistica e dove si è diplomato alla Haute École d’Art et Design nel 2013. Da allora – così lo si presentava in occasione del Premio Manor – il suo lavoro ha suscitato un crescente interesse e ha riscosso importanti riconoscimenti, portandolo ad essere incluso tra i dieci artisti svizzeri con meno di trent’anni che nel 2014 sono stati insigniti del Premio Kiefer-Hablitzel. Soggetto quasi esclusivo della sua pittura è il paesaggio, tema quanto mai delicato e problematico nella pittura contemporanea, su cui incombono non pochi rischi, primo fra tutti quello di cadere in una facile e compiacente descrittività. La pittura di Marco Scorti si pone proprio lì, su quel discrimine difficile che separa la apparente descrizione da quel qualcosa che la porta oltre e lascia l’osservatore su una soglia d'incertezza o inquietudine. Ne è un esempio il grande dipinto che accoglie il visitatore: un vasto cielo ‘tiepolesco’ visto da sotto, con un bell’ammasso rosa-viola di nuvole in viaggio verso chissà quali mete lontane: altamente poetico ma chiuso tra due quinte di alberi che lo tagliano in diagonale, come a incarcerarlo, mentre da destra entra in scena uno strano oggetto non identificabile, quasi la prua di una nave. Scorti impedisce in questo modo l’adesione ingenua al soggetto dell’immagine, pone dentro la pittura il pungolo di una questione irrisolta, di una trafittura.

Uomo e natura

Il fascino del ritorno alla natura e quello proiettivo dell’utopia palingenetica che sopravvivono ancor oggi nelle memorie e nelle testimonianze storiche di quel luogo, il Monte Verità, si incrinano di fronte alle migliori pitture o carte di Scorti che sollevano criticità circa il rapporto tra uomo e natura. Anzitutto perché l’uomo non è mai realmente presente in quanto entità fisica, ma solo indirettamente: non di rado per via delle tracce lasciate dal suo passaggio, vale a dire per i frammenti superstiti di un paesaggio antropizzato e costruito che adesso però vive nell’abbandono, nel disfacimento.  Ma quando non c’è neppure quello e l’opera funziona, dando al visitatore l’impressione che egli sia il primo e forse unico osservatore di quel luogo impossibile e rivelatore: come nel grande trittico ferruginoso ed oscuro, ma ravvivato da strani ed irreali bagliori di luce, tagliato in alto da una vecchia passerella in ferro abbandonata, tra alberi e rami in primo piano che sembrano contorti tondini di ferro. Paesaggi persi a metà tra il reale e il surreale, colti in atmosfere perlopiù cupe, carichi di suggestioni sfuggenti. Luoghi banali e anonimi della quotidianità che stanno ai bordi dello spazio urbanizzato dove natura e tracce dell’evoluzione umana, anche tecnologica, si contrappongono ma anche si ibridano e contaminano.

Ridondanza e sfacelo

Nella pittura di Scorti la ridondanza della bella natura e florida – a volte descritta tanto minutamente e ‘perspicua’ da ricordare la pittura fiamminga del ‘400 – convive con il senso dell’abbandono e della morte, dello sfacelo. Decomposizione e rinascita, e viceversa: ma anche storia, civiltà, intere generazioni di cui non è rimasto che qualche muro sbrecciato. Ovunque c’è un grande silenzio che non è mai però pura contemplazione. Lo impediscono prospettive scorciate o tirate in lungo, strani ed irreali colpi di luce e controluce, zone che affossano nell’ombra ma che concludono poi in un chiarore diafano; ma soprattutto questa sua precisione fotografica, anche microscopica, che però non finisce lì. Lasciamo a lui l’ultima parola: “Dipingo prevalentemente luoghi emersi dai miei ricordi, nei quali la presenza umana è percettibile unicamente per via di alcune tracce e indizi. Le immagini create sono per alcuni versi presenti e concrete, sia per la materialità della pittura stessa, sia per gli elementi rappresentati. D’altra parte esse sono lontane, ambigue e atemporali, proprio per via della loro origine nella memoria soggettiva.”

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