Culture

Sandro Veronesi, l'architettura del 'Colibrì'

La parabola di un oftalmologo nell'ultimo romanzo dello scrittore italiano, da molti indicato come il prossimo vincitore dello 'Strega'

'Il colibrì' (La nave di Teseo) - foto: Wikipedia
11 marzo 2020
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L’ultimo, celebratissimo (da molti indicato come prossimo vincitore dello Strega), romanzo di Sandro Veronesi – 'Il colibrì' (La nave di Teseo) – mi pare tragga gran parte della sua forza dalla complessa dialettica tra due dinamiche: la ricerca incessante del senso di ciò che (ci) accade e, nel contempo, la dichiarazione dell’almeno parziale scacco di questa indagine. Il compito primario della letteratura è proprio quello di illuminare zone sconosciute della realtà, e questo indipendentemente dal fatto, come suggeriva Walter Siti, che le coincidenze raccontate siano più o meno plausibili, poiché il “realismo è l’impossibile”.

Veronesi disegna la parabola dell’oftalmologo Marco Carrera, a partire dal magistrale incipit (e tutti i romanzi dell’autore, come è stato notato, si aprono con un evento destabilizzante) in cui gli si presenta in studio Daniele Carradori, lo psicanalista della moglie, per avvertirlo, contravvenendo a ogni regola deontologica, che il loro matrimonio è finito da un pezzo e che la donna è incinta di un altro uomo. Una vita che sarà poi costellata da una serie di disgrazie, dal calvario di assistere i genitori portati via dalla malattia, al suicidio della sorella Irene e al
rapporto complicato col fratello Giacomo; fino alla morte precoce della poco più che ventenne figlia Adele, che mette Marco in una condizione (quella di un genitore che perde un figlio) che nella nostra lingua non ha nemmeno un nome.

Qual è il senso di tutto ciò? Perché i litigi, i lutti, le separazioni, gli amori mai sbocciati (come quello con Luisa, con cui il protagonista intrattiene per quasi mezzo secolo un fitto e disperato carteggio)? Marco, sorta di Giobbe contemporaneo, trova un motivo per tenersi agganciato alla vita nel crescere Miraijin, la nipotina senza padre, sintesi della perfezione multietnica (pelle scura e occhi azzurri), che Adele gli ha lasciato due anni prima di morire; e l’epilogo del romanzo profetizza proprio l’avvento dell’"Uomo nuovo" (è questo il significato del nome della piccola), qui incarnato da una sorta di novella Greta Thunberg cui Veronesi sottrae tuttavia la possibilità conoscitiva dello sguardo aspergeriano. Marco resterà dunque sempre in piedi, resistente e resiliente, confermandosi colibrì non tanto perché da bambino non cresceva e così lo aveva ribattezzato la madre, ma per la sua capacità di muoversi incessantemente per rimanere fermo e non soccombere, tratto peraltro già enunciato dall’esergo beckettiano ("Non posso continuare. Continuerò") in continuità con alcuni dei romanzi precedenti, e confermato dalla sostanziale estraneità del protagonista rispetto alla Storia, che palpita tuttavia discretamente nelle singole storie dei vari personaggi.

Ed è una vicenda che Veronesi sa rendere attraverso una lingua perfettamente aderente alla realtà, in particolare grazie a quella sintassi avvolgente che è la peculiarità autoriale più patente (si torni a leggere il magnifico racconto Profezia) e, mi pare, anche l’unica capace di indagare senza soluzione di continuità la complessità magmatica del mondo. Né ritengo casuale, in questa prospettiva conoscitiva, il distacco ironico comune a protagonista e narratore, financo nelle scene più drammatiche. Il parziale scacco di questa esigenza di accedere pienamente al senso ultimo delle cose credo sia tuttavia rivelato anzitutto dalla frammentarietà del libro, costituito, come una sorta di canzoniere (postmoderno), da microtesti di varia natura: dai capitoli di taglio più narrativo, deputati alla precisa ricostruzione della vicenda del protagonista e di cui si è appena riferito, a tessere meno letterariamente connotate (gli SMS scambiati con Carradori, le e-mail inviate al fratello, le lettere a Luisa, i lunghi elenchi degli oggetti di design collezionati dai genitori); fino alle dense pagine della postilla, nelle quali l’autore dichiara i suoi debiti letterari e celebra i suoi maestri, tra i quali spicca l’assenza dei tradizionali numi tutelari, Dostoevskij e Vargas Llosa.

Si è parlato e scritto molto della costruzione perfetta del romanzo, ma credo che (l’architetto) Veronesi proponga un’architettura certo autoportante, ma pure caratterizzata da sottili tratti di discontinuità, metaforicamente resi dal filo che la figlia del protagonista, ancora bambina, crede, a causa di un disturbo percettivo, di avere attaccato dietro la schiena, e che sarà necessario recidere. Ritengo pertanto che il libro sia la dichiarazione onestissima di un limite conoscitivo, cui concorre, infine, anche la sapiente mescolanza tra ciò che è vero (o verosimile) e ciò che diventa simbolico; oltre alla compresenza di un’etica laica e della necessità della preghiera, su cui significativamente, ma senza alcun intento didascalico, si apre e si chiude il romanzo.

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