Il racconto

Gli occhi di Oscar

Bisogna prendersi il giusto tempo per entrare nelle situazioni; una scuola, un’aula, la vita. E mantenere i riflessi vigili, soprattutto se qualcosa sfugge al controllo e si susseguono le sparatorie fra studenti. Per fortuna, ad insegnare si può impa

Illustrazione di Sighanda
23 dicembre 2016
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Mia moglie non capisce perché vado a scuola mezz’ora prima dell’inizio delle lezioni. «Dormi un po’ di più», mi dice, «così poi alla sera possiamo chiacchierare o guardare un film insieme».

Ha ragione, ma io ho bisogno di arrivare presto. È come fare il bagno nel fiume: non sono capace di tuffarmi nell’acqua gelida. Non riesco a passare dalla calma anestetica della nostra cucina alla vitalità elettrizzante di un’aula. Ho provato, non ha funzionato: mi sono sentito frastornato per tutto il giorno e la sera è stato anche peggio. Nel fiume entro piano piano così il mio corpo si abitua alla temperatura. E piano piano devo abituare la mia mente alla gente prima di affrontare l’energia di trenta adolescenti.

Mi piace arrivare a scuola presto, quando ai cancelli non c’è fila, prendermi la colazione nella caffetteria ancora assonnata, sedermi in un’aula docenti silenziosa e ascoltare la stanza che si riempie di chiacchiere, di colleghi, di vita. Come ogni mattina, sto leggendo un giornale. Mario si siede accanto a me e con un «Posso?» appoggia sul tavolino un plico disordinato di fogli zeppi di numeri e calcoli.

– Come sei concentrato, stamattina – dice. – Che succede?

– È per ieri? – interviene Elena, con il suo accento francese. – Per il liceo Bianchi? Cosa dicono?

– Che cos’è successo? – chiede Mario.

– Una sparatoria – gli spiega lei guardandomi. – Non hai sentito?

– Nulla di nuovo – dico senza aspettare che lui reagisca. – Confermano i due morti.

– Accidenti! – Mario si scrocchia le dita.

– Due più l’attentatore?

– No – rispondo, – due con l’attentatore. Ha ammazzato un compagno, poi il professore l’ha fermato.

– Un colpo secco? – domanda Mario sistemando i suoi fogli.

Scorro qualche riga. – Ce ne sono voluti quattro. Il ragazzo è riuscito a spararne un altro ma non ha preso nessuno.

Mon Dieu – sospira Elena.

Mario si alza in piedi. – Quante altre sparatorie ci sono state, quest’anno?

– Sei, nel nostro circondario – rispondo leggendo. – E siamo solo a gennaio.

Elena mi guarda con gli occhi spalancati. – Cavolo!

Piego il giornale e lo poso accanto ai fogli di Mario. – Da quando ci hanno dato le pistole succede più spesso.

– Ma ci sono meno morti – precisa lui.

Elena lo fissa con lo stesso sguardo che riserva agli allievi ritardatari.

Mario cerca il telefonino senza trovarlo.

– Faccio in tempo a prendere un caffè?

– Si comincia tra cinque minuti, – gli dico. – Ce la puoi fare.

Una manciata di secondi dopo torna senza caffè. – Troppa fila. – Quel dommage! – Elena gli sorride.

 

Come ogni mattina, l’aula si è riempita di colleghi. Io ascolto il brusio familiare che cresce ogni minuto. C’è chi si scambia un saluto, chi parla di un allievo o di una lezione, chi si lamenta perché non ci sono parcheggi o per qualche questione sindacale.

– A me non è ancora capitato – dichiara Mario.

– Che cosa?– chiede Elena.

– La sparatoria in classe. Mai successo. E nemmeno di estrarre la pistola. Mai.

– Non so se saprei reagire con freddezza – riflette Elena. – E dovrei pure cercare l’arma in borsa.

– Io la tengo sotto la giacca – dico. – Ma neanche a me è mai successo.

 

Qualche minuto dopo sono seduto alla cattedra, pronto per cominciare la lezione. Osservo i miei allievi entrare. Arrivano a gruppetti e mi gettano addosso un «‘giorno» mormorato. Prima qualche ragazza con scarpe troppo leggere e trucco troppo pesante. Poi i ragazzi, capelli curati, jeans stretti e giacche ampie. Non mi muovo e li osservo. Cerco con lo sguardo le loro mani, tengo d’occhio chi le ha infilate in tasca. Si siedono, alcuni prendono i libri dalle borse e li posano sui banchi. Tutti presenti, tutti seduti. Attendo qualche secondo per lasciar calmare il chiacchiericcio e mi rilasso.

– Buongiorno a tutti! – esclamo.

– Ci ridà i temi? – chiede Laura, caschetto nero, occhi vispi. È sempre lei a farsi avanti.

– Prima l’appello, come al solito.

Li chiamo uno per uno cercandone lo sguardo. È il mio modo per avere un momento personale, uno-a-uno.

Prima delle due ore di uno-a-molti. Restituisco i temi. Giro tra i banchi annunciando i nomi e porgendo i fogli che gli allievi afferrano, chi con ansia, chi con sicurezza, chi con disinteresse. Raccomando di leggere con cura i commenti e lascio loro qualche minuto, poi è il momento di andare avanti.

– Prendete l’antologia – dico.

Chi ancora non ha il libro sul tavolo si china per toglierlo dalla borsa. Mi soffermo mezzo secondo a guardare, per assicurarmi che non prendano nulla di pericoloso, poi mi giro e scrivo alla lavagna il nome dell’autore che tratteremo di qui a poco. – Apritela a pagina 245.

 

Quando sento il colpo sto scrivendo una “c”. Me la ricorderò per sempre, quella mezza “c”. Mi ricorderò la fatica per completarla, la paura di girarmi di nuovo verso la lavagna, la mano tremante incapace di centrare il punto giusto per proseguire.

Quando sento il colpo lascio cadere il gesso e mi giro. Con un movimento fluido estraggo la pistola dalla fondina, sotto la giacca, e la punto verso la fonte del rumore.

Oltre il mirino vedo gli occhi di Oscar, diciassette anni, ripetente. Occhi che si fanno sempre più grandi. Occhi che forse per la prima volta vedono una pistola dalla parte sbagliata, con dietro uno pronto a uccidere.

Sul pavimento, la pesante antologia. Dirà che gli è caduta, non gli crederò. Penserò che l’ha gettata a terra di proposito, per spaventarmi, proprio il giorno dopo l’ennesima sparatoria scolastica. La rapidità della mia reazione l’ha sorpreso, sono certo che non se l’aspettava. A dire il vero non ero mai stato così veloce, nemmeno durante i corsi di preparazione all’insegnamento.

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