‘In Between - Arte italiana e americana dalla Collezione Ghisla’, nuovo percorso espositivo per i 10 anni della Fondazione, dal 14 marzo
Sono due le principali linee di percorrenza e quindi anche di possibile lettura che attraversano l’esposizione ‘In Between - Arte italiana e americana dalla Collezione Ghisla’, che verrà inaugurata nell’omonima Fondazione venerdì 14 marzo tra le 17 e le 19.30. L’una, più strettamente privata, concerne l’orientamento della collezione sulla base delle scelte operate dai collezionisti nel corso di un quarantennio; l’altra, molto più vasta e di natura storica (qui forzatamente contratta per ovvie ragioni logistiche e spaziali), entra nel tema di questa rassegna e concerne i complessi rapporti che intercorrono, a partire dal secondo dopoguerra, tra l’arte europea – in questo caso italiana – e americana.
Va detto che quanto esposto non è che un filone interno alla collezione dei coniugi Ghisla, la quale non pretende certo di raccontare la storia dell’arte; in questo caso si tratta di schegge, affondi e accertamenti che prendono rilievo rispetto a un panorama che va delineandosi man mano si procede nella rassegna. Al di là della loro specifica individualità, nel loro insieme e nel loro relazionarsi, queste opere tracciano pure una sorta di ritratto-autoritratto intellettuale dei due collezionisti quanto al loro modo di rapportarsi all’arte e al collezionare, al piacere della scoperta che – come scrive Federico Sassella, curatore della mostra – “trova riscontro in una rassegna che, senza clamori, mescola le carte e si interroga sulla storia dell’arte contemporanea”.
Carla Accardi, Integrazione n. 11, 1957/58. Tempera alla caseina su tela, 83,8 x 114,3 cm
Si profila così la seconda linea di lettura suggerita dall’accostamento di opere e artisti operanti in epoche e contesti diversi, tra Italia e Stati Uniti, che riportano al complesso rapporto che si è venuto a stabilire tra l’arte europea e quella americana nel corso del Novecento, che richiamiamo qui nei suoi tre momenti più significativi. A cominciare dalla prima grande rassegna sulle avanguardie artistiche europee avvenuta all’Armory Show di New York, nel 1913, che, con la scoperta da parte degli americani dell’espressionismo, del cubismo e futurismo, segnò l’avvio di un forte rinnovamento artistico negli Stati Uniti. Segue, nell’immediato dopoguerra, dopo decenni di sostanziale chiusura, il multiforme e ricco intensificarsi dei rapporti, degli scambi e delle mostre tra le due sponde dell’oceano, con gli americani che nel frattempo avevano percorso non poca strada: bastino i nomi di Jackson Pollock, di Willem de Kooning e Mark Rothko. Ma, al riguardo, si legga il documentatissimo saggio in catalogo di Giuliano Cipolla per constatare quali e quanti scambi e rassegne abbiano coinvolto artisti italiani e americani (alcuni dei quali vengono a soggiornare in Italia, da Twombly a Sol Lewitt) in anni di forti contrapposizioni tra figurazione e astrazione, tra arte informale e concettuale, tra New Dada e minimalismo. Finché non si arriva all’indiscutibile e plateale segno della svolta con la Biennale di Venezia del 1964 che, con il Premio assegnato a Robert Rauschenberg in mostra con Jasper Johns, Chamberlain, Oldenburg, Frank Stella…, non solo determinerà la consacrazione della Pop Art americana, ma la trasformerà in un fenomeno di massa.
Enrico Castellani, Superficie bianca, 2001 (acrilico su tela)
Per quanto concisa, nelle sue polarizzazioni interne la prima sala della rassegna ne dà subito conto. Con Frank Stella, artista che aveva partecipato alla Biennale del 1964, presente con una sua scultura di ispirazione “pop” nell’uso di forme e colori forti e nell’adozione di materiali che richiamano la produzione industriale e di consumo. Un assemblaggio che gioca di contrappunto con la spoglia e monumentale opera-oggetto, palesemente minimalista, di Richard Serra, venuto lui pure in Italia per un anno, a Firenze, nel 1965, tanto che tenne la sua prima personale alla galleria La Salita di Roma nel 1966. A interporsi tra i due, un bellissimo Fontana con uno dei suoi rivoluzionari “tagli” che portano molto lontano e già preannunciano quanto si ritroverà alla fine della rassegna nelle opere dei compagni di strada Bonalumi, Castellani e Manzoni.
La seconda sala attesta però che, sul finire degli anni Sessanta, qualcosa inizia a cambiare con le nuove generazioni e l’affermarsi dell’Arte povera: grazie a Germano Celant che, nel 1969, evidenzia le novità insite nelle opere di artisti quali Anselmo, Boetti, Calzolari, Kounellis, Penone, Pistoletto e Zorio. A differenza della critica americana propensa “a interpretare quell’arte come un fenomeno parziale, da analizzare solo in quanto espressione di un campo circoscritto e territoriale”, Celant rivendica “il carattere aperto, vitale e tutt’altro che disgiunto della recente arte italiana, ‘spalancato’ alle tendenze mondiali e addirittura megafono di un nuovo sistema valoriale in ambito culturale”. Pur nelle affinità di fondo con certe tendenze neoavanguardistiche del secondo Novecento, l’Arte Povera italiana ha infatti alcuni tratti suoi peculiari che la distinguono dall’arte sia europea che americana, non solo per il ricorso a materiali poveri come terra, legno, pietra, carta, tessuti ecc. o per l’originalità delle soluzioni formali, ma anche per il suo implicito dissenso nei confronti tanto della mercificazione dell’arte (Pop), quanto della ricercata estetica minimalista per la pura forma. Di tutto questo il visitatore risentirà l’eco spostandosi di sala in sala e ascoltando le schede-audio che lo accompagneranno nel suo percorso.
James Rosenquist, Senza titolo, 1990 (olio su tela)