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African Design, storie del potere e della sua materia

Al Museo delle culture una mostra dedicata ai ‘metalli di potere’ utilizzati in complesse transazioni non solo economiche e la loro riscoperta europea

(Musec)
14 febbraio 2025
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Quali forme assume il potere? Nella sala che apre la mostra ‘African Design’ vediamo quello che, con gli occhi di una persona europea del ventunesimo secolo, descriveremmo come una scultura o un oggetto d’arredamento a forma di spada o punta di lancia, dalle sembianze vagamente falliche. Si tratta in realtà – ma sarebbe meglio dire “in origine” – di un topoke, o doa o liganda o ngbele a seconda della popolazione di origine, un oggetto usato in diverse zone dell’Africa centrale e occidentale per l’acquisto di beni particolarmente preziosi e per le “transazioni matrimoniali” (che non sono il semplice “comprarsi la moglie” ma uno scambio che lega insieme due famiglie, una sorta di compenso che la famiglia della moglie riceve per la perdita temporanea della figlia). Tecnicamente si tratta di una moneta, ma ben hanno fatto Paolo Maiullari e Moira Luraschi – curatori dell’esposizione in corso al Museo delle culture di Lugano fino a settembre – a evitare questo termine fuorviante e parlare, nel titolo, di “I metalli del potere”.

Simboli di ferro

I quattrocento oggetti esposti al Musec erano al centro – e lo sono tuttora, seppur in un contesto molto diverso – di una complessa rete di significati simbolici e sociali. Qualcosa la possiamo già intuire dalla forma: vediamo vanghe, asce, gioielli e armi che però non erano mai utilizzati come tali, ma per indicare valori e gerarchie sociali. Mostravano spesso il potere che doveva essere visibile, manifestarsi fisicamente. L’aspetto materiale è quindi centrale, più importante di quello che da europei ci aspettiamo per un simbolo; la cosa è evidente anche dalle dimensioni di questi oggetti, pesanti diversi chili, in netto contrasto con l’idea occidentale di una moneta. Il materiale usato è principalmente ferro: di fatto un metallo prezioso non solo per le sue caratteristiche, ma perché raro in quelle regioni africane e veniva importato in lingotti e lavorato localmente dai fabbri il cui ruolo era molto importante. Si trattava di figure rispettate, anche se in alcune società erano temute e tenute ai margini (anche per questioni pratiche relative alle fornaci).

Come detto, agli occhi di una persona europea di oggi rischia di sfuggire questa ricchezza di significati che peraltro qui è solo accennata. E del resto – come spiegato in conferenza stampa dai curatori – è stato difficile ricostruire il significato preciso dei vari oggetti, con un lavoro di ricerca che troviamo, oltre che nella mostra, anche nell’interessante catalogo che accompagna l’esposizione.

Il significato di quegli oggetti era infatti sfuggito anche agli europei che, durante l’Ottocento, iniziarono a esplorare e colonizzare i territori interni del continente africano, limitandosi a considerare il valore materiale del metallo e considerando quegli oggetti curiosità etnografiche o semplici “monete primitive”. Nel Novecento, e in particolare con il dopoguerra, questi oggetti vennero riscoperti per le loro forme geometriche e il disegno astratto. Siamo – come ha spiegato il direttore del Musec Francesco Paolo Campione – in un momento di passaggio, quando quelle che all’epoca erano conosciute come “arti negre”, provenienti dall’Africa, dall’Oceania e dall’America, iniziarono a essere ammirate non solo dalle avanguardie che cercavano un nuovo modo di fare arte, ma anche dai ricchi signori che cercavano oggetti di pregio per le loro abitazioni. Per certi versi tornando alla loro natura originaria, di emblemi di potere e di status sociale.

Negli anni Ottanta quei “simboli primitivi” venero poi ripresi da artisti come Jean-Michel Basquiat e Keith Haring, ma questa è un’altra storia. Sempre in quegli anni le monete africane divennero oggetto di collezionismo, importante per quanto meno sviluppato rispetto a quello di altri oggetti. È proprio grazie a due importanti collezioni di questi oggetti – quelle di Giorgio Antonini e di Pieter e Catherine Coray – che sono state affidate al Musec ed è nata la mostra (insieme a prestiti provenienti da altre collezioni). «Mia moglie mi ha regalato una prima moneta perché aveva una bella forma, e io mi sono innamorato» ha spiegato Giorgio Antonini, citando l’essenzialità di queste forme che, in qualche maniera, sintetizzano la natura e le attività umane. «Un collezionista cerca per tutta la vita qualcosa che gli piace e poi, quando come me arriva a 87 anni, si chiede come dare continuità a quello che ha trovato: per questo ho deciso di “dare via” la mia collezione al Musec».

Una catena di significati

Questo, a grandi linee, il percorso attraversato da quelle monete. Che corrisponde al percorso espositivo scelto da Luraschi e Maiullari per la mostra che fa un notevole lavoro per contestualizzare questi oggetti. Questo spiega il passaggio, indubbiamente brusco ma coerente, tra i due piani, ciascuno dedicato a una diversa contestualizzazione delle monete: quella originale delle società africane, evidenziata da un allestimento in tonalità giallo e marrone scuro che evoca l'ambiente delle transazioni commerciali e delle cerimonie tradizionali, e la risemantizzazione secondo l’estetica moderna, con pareti e supporti che richiamano il "white box" tipico del design d'interni degli anni Sessanta e Settanta. Il percorso si conclude con una sezione dedicata agli oggetti prodotti specificamente per il mercato collezionistico, quando il contesto sociale nel quale originariamente si muovevano quelle monete era scomparso e si può parlare di vera e propria produzione artistica guidata dall'interesse occidentale.