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Foto-sensibilità di Agnetti e Vimercati

Periferiche nella mostra ‘At the Studio’, la Collezione Olgiati di stanza al Lac, due immagini aiutano a comprendere la storia dell’arte moderna

Franco Vimercati, ‘Senza Titolo’, 1991
4 giugno 2023
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Ci sono due immagini, negli spazi al -1 del complesso del Lac di Lugano, sede della collezione Olgiati e, in questo periodo, della mostra intitolata At The Studio. Sono Foto-Graffia (1980-81) di Vincenzo Agnetti e una zuppiera che campeggia Senza Titolo (1991) con la propria morbida distribuzione di grigi sul campo grigio del muro di cemento armato.

Allestite in posizione periferica rispetto al percorso della mostra, ci colpiscono non solo quando ce le troviamo di fronte ma anche passando accanto, per la loro qualità e perché sono potenziate dal supporto su cui sono appese e, forse, proprio dalla loro posizione di confine. Sono due opere diverse, suggestive e utili a comprendere aspetti della storia dell’arte moderna e di come, in alcune fasi storiche, vengono affrontati aspetti nodali dell’espressione, della rappresentazione e del rapporto tra queste, il vissuto, lo sguardo e la realtà.

‘Io sono il mio scatto’

La zuppiera è una fotografia in bianco e nero; Franco Vimercati è un fotografo concentrato, salvo la prima fase di documentazione della realtà piemontese dalla quale proveniva, nella osservazione, riproduzione e rappresentazione di frammenti di un universo domestico. Con una angolatura frontale noi vediamo ciotole, barattoli, oggetti della cucina, piastrelle in cemento disegnato, bottiglie di acqua con la loro etichetta commerciale. In parte egli, con il gesto dello scatto, premendo un pulsante meccanico dopo avere allestito la situazione dell’immagine, quindi con una azione minimale, si affermava, cioè asseriva a se stesso la propria esistenza e agevolando, mediando il passaggio dalla realtà della zuppiera alla relativa immagine, legittimava il proprio esistere attraverso un gesto espressivo. «Io sono il mio scatto», diceva, se ricordo bene. Ci può capitare di incontrare una persona, ormai ridotta in condizione afasica da un incidente cerebrale, impegnata a stendere colori su una tela con un gesto semplice la cui ambizione è di esprimersi senza più il bisogno della parola che ha perso. Si tratta di una espressione emancipata dal contenuto da trasmettere e circoscritta, come appagata dalla forza del tirante che si crea tra esistere e agire. Lo scatto di Franco Vimercati è anche questo. È però anche il trasferimento di tutto ciò in ambito estetico: estetizzando, promuovendo i valori plastici, cromatici, figurativi di un oggetto domestico, talvolta accentuando la definizione, talaltra virando invece su una ripresa sfocata, attraverso il trasferimento in immagine l’oggetto recupera un potere narrativo, diventa qualcosa di bello nella propria semplicità e ordinarietà. Diventa anche un concentrato di episodicità, perché si tratta di oggetti che appartengono a una specifica vita, e di assolutezza, perché la sua presentazione ci restituisce il valore assoluto di quella forma. Per certi aspetti potremmo dire che quella immagine di zuppiera affronta l’ontologia dei cocci suoi: è radicata nell’esperienza e nella relazione personale; la trasferisce, attraverso il trattamento operato dalla fotografia e la costruzione dei grigi distribuiti sulla superficie, in un universo, quello dell’immagine, che ci restituisce una forma distinta dall’originale, un nuovo soggetto assoluto.


Vincenzo Agnetti, ‘Photo-Graffia’, 1980-1981

Simpatetico

Agnetti effettua un percorso complementare. Parte dalla parola che egli esprime in poesia ma è anche un tecnologo e articola la sua seminale e fondante ricerca in molti possibili rivoli. Anch’egli utilizza un processo di estetizzazione per esprimere il modo in cui un concetto vuole affrontare un frammento della realtà (per esempio, la riflessione sulla relazione tra memoria e cultura e meriterebbe a mio avviso confrontarla con l’impianto costruito in altra sede da Antonio Gramsci). Lavora attraverso la semantica del testo, la semiotica dei segni, testuali (lettere, parole…) ma non solo (segmenti, vettori, forme geometriche…), attraverso la grafica e nel corso della propria carriera utilizza supporti diversi. Sviluppa, per ottenere i risultati espressivi desiderati, tecniche di formalizzazione specifiche, sia grafiche, sia compositive, per esempio sistemando un testo su un feltro o su un supporto rigido dipinto di nero. Cerca di coinvolgere il pubblico nella produzione dell’opera e invitandolo ad aderire ai risultati con tecniche simpatetiche (per esempio gli aforismi come dimenticato a memoria, oppure quando mi vidi non c’era). Ambisce a conquistare l’adesione del pubblico anche attraverso una gradevolezza superficiale, sostenuta da una ricerca profonda e da una tecnologia di costruzione del lavoro strutturata e sofisticata. Di tutto questo lavoro, Foto-Graffia è un esito coerente, contrassegnato da una libertà estetica, da un lirismo e da una qualità appaganti. Il segno si emancipa sia dalla dimensione testuale, sia da quella grafico - geometrica e si riduce a un graffio su un supporto fotosensibile con il quale una pellicola bruciata, cioè messa in condizioni di non potere generare immagine, ci restituisce una immagine di altra natura e noi ci ritroviamo di fronte a un disegno stilisticamente contrassegnato di epifanie floreali.

Nel percorso della mostra tra Foto-Graffia e la zuppiera vi è una serie di scatti di Ugo Mulas, il quale con le riflessioni e le pratiche intitolate Verifiche ci ha offerto un riferimento concettuale strutturale. Di fronte, la magnifica terracotta di Arturo Martini dedicata al violoncellista ci ricorda come l’immagine sia il frutto di un’incisione, così come succede nel trattamento di Agnetti e nella monumentalizzazione domestica di Vimercati.

La mostra offre, certo, altri stimoli; già questi sono un antidoto rispetto agli aspetti respingenti del sistema odierno dell’arte, che continua a propinarci proposte insulse, incomprensibili spesso perché non c’è niente da comprendere e fitte di mancanza di contenuti.