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‘La pubblicità della forma’, sette volte Andy Warhol

Tante sono le aree tematiche della retrospettiva curata da Achille Bonito Oliva, aperta fino al prossimo 26 marzo a Milano, Fabbrica del Vapore

(Giovanni Daniotti)
1 marzo 2023
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Un tempo edificio industriale che produceva componenti per tram e treni, passato poi al Comune di Milano che lo ha ristrutturato e destinato a nuova vita, la Fabbrica del Vapore (Via Procaccini, 4a) è diventata oggi luogo di aggregazione e promozione culturale nonché di eventi come la mostra dedicata a Andy Warhol: ambientata nello spazio più confacente dal momento che molte di quelle opere sono nate all’interno della nota Factory, cioè fabbrica. Si tratta di una retrospettiva suddivisa in sette aree tematiche: dai suoi inizi di illustratore commerciale nei primi anni ‘50 sino all’ultimo decennio di attività negli anni Ottanta connotato dal rapporto con il sacro. Esposte una ventina di tele, una cinquantina di opere uniche come serigrafie su seta o carta, molti disegni, fotografie, dischi originali, T-shirt, la BMW Art Car dipinta da Wahrol, la ricostruzione della Factory e una parte multimediale con proiezioni di film.

Nato nel 1928 a Pittsburgh, in Pennsylvania, terzogenito di due modesti immigrati slovacchi, Andy Warhola nel ’49 consegue il Bachelor in Fine Arts e comincia a lavorare come grafico pubblicitario dimostrando subito il suo talento; nello stesso anno si trasferisce a New York dove si fa presto notare e si afferma nel mondo della pubblicità lavorando per riviste come Vogue e Glamour. Oltre che a marcare i suoi inizi, New York diventa per lui il luogo ideale dove poter realizzare il suo ambizioso progetto: inserirsi nel mondo dell’arte contemporanea e farsi conoscere come artista dai molteplici interressi dalla grafica d’arte alla pittura, dalla moda alla musica, dal cinema alla fotografia e all’editoria. Qui modifica il suo cognome in Warhol così da americanizzarlo: una spia della sua innata tendenza a mimetizzarsi, ad adeguarsi all’ambiente esterno fino ad assimilarvisi, a coincidere con esso. Sarà proprio il mondo della pubblicità a rendere consapevole Warhol della rivoluzione che avrebbe potuto avviare attraverso quell’affascinante mezzo di comunicazione, sempre più presente nella vita quotidiana delle persone.


Giovanni Daniotti

La bella selezione di suoi disegni degli anni ‘50 esposti in mostra (e un tempo trascurati) non è solo necessaria per comprendere il suo futuro sviluppo, ma anche per verificare la raffinatezza del tratto e l’originalità dell’invenzione per quanto non faccia arte (nel senso tradizionale di messa a fuoco del proprio mondo e svelamento dell’individualità dell’artista) ma pubblicizzi scarpe. In realtà è proprio su questa linea di pensiero che egli svilupperà poi la sua arte: assumendo per la propria produzione artistica immagini seconde, vale a dire già precostituite e in circolazione, prodotte da altri, facenti parte del panorama visivo e culturale della metropoli novecentesca – la cosiddetta ‘cultura di massa’ con immagini tratte da riviste o giornali, insegne o manifesti pubblicitari – così da eliminare il soggettivismo esistenziale dell’Action Painting e farne specchio di quella nuova modalità di vita dentro cui l’uomo metropolitano del XX secolo vive immerso. Questa è la vera invenzione di Andy Warhol.

La domanda si impone da sola: come può diventare arte l’assunzione di una reclame pubblicitaria come Brillo o la Soup Tomato della Campbell’s, ripresa alla lettera e serigrafata, non singolarmente ma in innumerevoli copie realizzate in serie e anonimamente da un gruppo di giovani amici che operano accanto a Warhol all’interno della Factory seguendo procedure prestabilite, utilizzando colori industriali? Così facendo, si direbbe che egli rinunci alla propria individualità e creatività, vale a dire a ciò che fino a lui erano i tratti distintivi del vero artista, per eclissarsi nei panni di un uomo qualunque: predilige la riproduzione fotografica per la sua palese oggettività; opta per l’esecuzione collettiva come negazione di individualità; si avvale di colori accesi e industriali usati meccanicamente e fuori registro come negazione della perfezione e irrepetibilità dell’opera d’arte; ne fa delle tirature seriali come negazione dell’unicità del capolavoro mentre lui tappezza intere pareti di galleria o le dispone come fossero merci sugli scaffali di un supermercato.


Giovanni Daniotti
Bmw M1

Ora, se c’è un fenomeno vistosissimo che più di tutti gli altri ha caratterizzato il XX secolo marchiandolo a livello socio-culturale e differenziandolo dalle epoche precedenti, questo è proprio il consumismo di massa, la produzione industriale dei beni di consumo, la società visiva dominante e ravvisabile nel cartellone pubblicitario come nelle insegne luminose, nella rivista patinata come nella riproducibilità tecnica dell’opera d’arte (Benjamin) e conseguente perdita della sua antica aura. Ed è proprio qui che si inserisce la produzione artistica di Andy Warhol che, come tutti i grandi artisti, ha saputo più e meglio degli altri calare nelle sue opere il diverso ‘spirito’ del nostro tempo, facendone specchio (consapevole!) di una modalità del vivere e dell’assimilarsi, fino a perdersi, dentro la profusione di beni di cui può disporre a piene mani chiunque si affermi nella società del benessere. Non senza una buona dose di cinico conformismo e di ambiguo adeguamento, come dimostra il bel saggio di Bonito-Oliva in catalogo: in quanto a differenza degli artisti della generazione precedente egli "non soffre affatto i disagi della civiltà tecnologica come produttrice di alienazione."


Giovanni Daniotti

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