Mostra

La libertà cercata nell’arte di Allam Fakhour

Dal 16 ottobre, Casa Rusca dedica un’esposizione all’artista e attivista siriano, in Svizzera dal 2015. Vernice, sabato 15 dalle 17.30.

Dalla serie ‘Presi di mira’, 2022
(© Allam Fakhour)
13 ottobre 2022
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Era solo nella cella, per lo meno all’inizio. Con una pasta fatta di pane raffermo e sapone realizzava piccole sculture, che disfaceva per poter avere massa con cui creare qualcosa di nuovo: piccoli gesti clandestini che raggrumavano emozioni, sentimenti, le storture drammatiche della vita, le torture subite, la violenza. Piccole sculture di pane e sapone che gli permettevano forse di evadere e allora resistere. Il materiale era poco e bisognava arrangiarsi e bisognava farlo di nascosto, perché qualunque espressione artistica, nella prigione peggiore al mondo, era fuorilegge. Così come le idee democratiche di cui si è fatto promotore l’artista siriano e attivista politico Allam Fakhour, che lo hanno destinato all’arresto e alla prigionia per cinque anni nelle carceri di Saydnaya (nei pressi di Damasco), dal 2006 al 2011. Il contesto siriano, la detenzione, lo sradicamento dalla propria terra e lo statuto di rifugiato hanno segnato profondamente il suo lavoro, diventando al contempo fonte e messaggio del suo fare.

Riavvolgiamo il nastro, perché a questo punto è necessario esplicitare l’occasione: da questa domenica (16 ottobre) a quella del 26 febbraio 2023, la Pinacoteca Casa Rusca di Locarno dedica all’artista – scultore, pittore, scenografo, serigrafo – la mostra ‘Allam Fakhour e l’arte sotto sequestro’, che sarà inaugurata questo sabato, dalle 17.30. Questa è la seconda esposizione di respiro internazionale della pinacoteca, come è stato ricordato in conferenza stampa questa mattina dalla capadicastero Cultura Nancy Lunghi e Rodolfo Huber, direttore dei Servizi culturali cittadini, accompagnati dall’artista in persona. La proposta si inserisce in una serie di esposizioni che esplorano e studiano la produzione di artisti provenienti da contesti migratori. Fenomeni che influenzano e plasmano identità complesse che si esprimo secondo linguaggi propri, metaforizzando la propria vita in opere.

Per meglio comprendere la produzione e le opere esposte, chiavi di lettura indispensabili sono i riferimenti biografici, perché, come in molti casi, vita e arte sono binomio indissolubile.

Viaggio di sola andata

Sono oltre dieci anni che Allam non torna nel suo paese, a Salamiyya, la cittadina in cui è nato nel 1977. In Siria (crogiolo di storia e arte con influenze anche occidentali) infanzia e adolescenza le trascorre sotto i bombardamenti di una guerra che procede a testa bassa da anni, con feroci azioni come il massacro di Hama del 1982. Ciononostante, l’artista s’appassiona all’arte e intraprende gli studi alla Facoltà di belle arti dell’Università di Damasco, dove si laurea nel 2003, specializzandosi in scultura. In seguito, trova lavoro come docente di scultura all’Istituto d’arte di Damasco e al contempo realizza sculture. Ma il suo tempo non è dedicato solo all’arte, bensì anche all’attivismo politico che lo spinge, insieme ad altre persone, a fondare nel 2006 un movimento per la libertà, anche d’espressione, che ha radici in idee democratiche: il gruppo Shams Gathering. Pubblicati alcuni testi, il gruppo viene scoperto e catturato dalla polizia segreta siriana. I militanti, dopo il processo, finiscono in prigione chi per sette, chi per cinque anni come Fakhour. A Saydnaya, l’artista subisce torture fisiche e psicologiche e, come scritto in principio, gli era vietato esercitare qualsiasi forma d’arte, proibizione impossibile da osservare. Procediamo a grandi passi: nel 2013, Allam si trasferisce a Beirut, in Libano, dove prova a ricostruirsi una vita, lavorando come scenografo in un’azienda di produzione cinematografica. Ma anche in Libano la situazione non è delle più semplici, così l’artista presenta domanda all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati e, ottenuto l’asilo nel 2015, si trasferisce in Svizzera. Attualmente vive nel Canton Glarona e dallo scorso anno segue corsi di educazione artistica all’Università delle arti di Zurigo. Negli anni, con i suoi lavori partecipa a esposizioni, come quella all’Hard-Cover Art Gallery di Zurigo, nonché a eventi d’arte, per esempio Art Basel nel 2019.

Di pane, sapone e altre cose

Fakhour con l’arte parla delle esperienze vissute: guerra, violenza, oppressione, traumi, esilio, sradicamento e del doversi rimboccare le maniche per ricostruirsi in un paese lontano (tutt’ora la sua quotidianità d’artista è assai precaria). Questi temi sono il punto di partenza per la sua riflessione realista ed espressiva, che non può non prescindere dalla memoria. Il suo linguaggio contempla generi e tecniche diversi, come anche formati: dalla tela alla scultura, con acrilico, pastello, inchiostro, grafite, fino a quel materiale povero – una massa di pane e sapone – che gli ha permesso di sopravvivere fra le mura della cella.

Eccoci allora alla mostra. La decina di sale della pinacoteca ospita una quarantina di opere, per la maggior parte realizzate nell’ultimo anno appositamente per questa mostra, curata da Huber, Giada Muto e dallo stesso artista. La visita procede in modo ascensionale e il concetto d’allestimento mette in rilievo i temi attraverso una manciata di serie. Ne mettiamo in luce alcune: ‘Parallelismo’ dove attraverso un gesto marcato (con pennello intriso di nero o digitando coi polpastrelli di grafite) traccia i segni della memoria, un richiamo agli anni trascorsi in carcere, quando con le unghie solcava le pareti della cella. Andando oltre ci si imbatte nei ‘Volti fragili’, che vanno da una figurazione marcata e primitiva, sebbene siano tratteggiati nella loro essenzialità, fino a esiti più astratti e stranianti. In una sala di piccole dimensioni una scultura di pane e sale (‘Identificazione II’). Proseguendo, ecco ‘Presi di mira’, una serie di tele dove si distinguono le figure umane vaghe e vacue sovrastate da bersagli. Se le sagome umane sono riconoscibili nelle teste raggruppate, ciò che continua sulla tela è la pittura colata, come il sangue delle vittime. Anche in questo caso il disegno si fa vago, indefinito sconfinando nell’astrazione.

Menzioniamo ancora l’installazione molto grafica ‘Tenda’, nell’ultima sala. Qui, l’artista propone il tema dei campi profughi: piegando fogli di carta e disponendoli nella stanza ricreando un agglomerato di tende. A guardarla, ci pare un plastico architettonico che preannuncia nuove geografie politico-sociali, dove però non c’è umanità. Gli occhi si perdono nei bianchi alienanti e silenziosi dell’installazione che urlano l’indifferenza.

La mostra è accompagnata da un catalogo bilingue (italiano e tedesco) con opere e apparato scritto, di cui segnaliamo il saggio critico dell’archeologo, scrittore e curatore siriano Jabbar Abdullah, e del calligrafo anch’egli siariano Ibrahim Said.

Informazioni: www.museocasarusca.ch; www.allamfakhour.com.

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