Culture

Vecchioni, lectio magistralis al Lac

Vecchioni e Ticino, «tradizione antichissi
30 ottobre 2017
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Per salutare cita Madre Teresa, Pasternak, Apollinaire, Orazio e Boccaccio. Dev’essere la conformazione ad ateneo della sala, habitat di un professore. Applaude il suo pubblico, Roberto Vecchioni al Lac, lui felice di «una tradizione antichissima che si ripete ogni due anni», lei – la sala – generosa e con gli smartphone spenti, un po’ per regola ferrea e un po’ per rispetto del relatore. ‘La vita che si ama Tour’ (che si deve a GC Events, con piacevole fissa per i cantautori) è il sunto di un libro, da cui il titolo del live, e di un album allegato (‘Canzoni per i figli’, 9 brani editi e la nuova ‘Che c’eri sempre’ scritta per la madre, recitata al Lac in dirittura d’arrivo). Ma c’è un “È tutto finito, non c’è più niente” udito a teatro – partito dall’idiosincrasia per la tecnologia per arrivare al tempo di oggi («non è più per me») – che allarga il sunto a ‘Io non appartengo più’, album del 2011 che per disillusione ricorda l’ultimo Gaber, e dal quale sembrano partire le istruzioni per l’uso della vita contenute nel libro.

Ha una battuta per tutti e per tutto, il professore. Per i selfie («le ragazze si fotografano tutto tranne l’anima, la sola cosa che le rende uniche»), per la deriva del linguaggio («sono latinista e grecista, ma “bifidus actiregularis” non l’ho mai sentito», gradito riciclo di ChiassoLetteraria 2016) e per i separazionisti: «Il mio condominio vuole l’indipendenza, dice che mantiene tutta Milano». L’invito del professore ad aprire, invece che a chiudere, precede ‘Sogna ragazzo sogna’, sunto della sua fiducia nei giovani, quelli che «devono prenderci per mano».

Il tempo effettivo della lectio magistralis è più ampio di quello musicale. E in fondo siamo a teatro, non al Palasport. Garantite ‘Stranamore’, ‘Luci a San Siro’ e ‘Samarcanda’, si ascolta d'amore, come tradizione vuole: quello per le donne, cantato quasi per allitterazione in ‘La mia ragazza’ e ‘Le mie ragazze’, la seconda dedicata a Franca Rame e a tutte le non più ventenni che “se ha tentato di fregarle il tempo, hanno fottuto il tempo con l’amore”; quello di ‘Due madri’ – la figlia Francesca, cantata poco prima in ‘Figlia’, e l’ex compagna – dedicato a Nina e Cloe, che «hanno nomi strani perché è strana la mamma», dice il nonno con ironia; l’amore per un figlio, nella dolente ‘Le rose blu’. Sparse qua e là, le opere scritte in quasi mezzo secolo, con ‘Chiamami ancora amore’ – in ponte sanremese con ‘L’uomo che si gioca il cielo a dadi’ – a dare speranza che non proprio tutto è finito.

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