
Tutto il Fusion Music Bar di Lugano è grande come una mattonella del palco del “Dangerous World Tour”. Però, quando arriva Jennifer Batten, ci si riesce ad immaginare un pezzo di storia del pop anche senza fumi e laser. Nel grazioso camerino allestito per lei, abbiamo incontrato la grande chitarrista americana, che ricorda di una prima volta «con Michael Jackson a Losanna, credo», ma anche di un agente svizzero, e di «tanti chilometri percorsi tra queste montagne». A fine anni ottanta, tutti strabuzzarono gli occhi alla vista della bionda solista, che sulla chitarra viaggiava a velocità da Steve Vay e pochi altri (la si veda sul Tubo, ricoperta di api vive, nel “Volo del calabrone” di Rimskij-Korsakov). Così, come per Sheila E. e altre protette di Prince, il music business apriva finalmente alle strumentiste, in un settore sino ad allora popolato da pochi eroi in gonnella...
Oggi, le chitarriste, non si contano più…
Si, è bellissimo, ne scopri almeno una al mese. Mi ricorda quello che successe trent’anni fa, quando mi chiamò Michael Jackson. Prince aveva Wendy & Lisa, e io mi dissi “ok, è arrivata la rivoluzione”...
Fino ad allora, invece, lei era una mosca bianca...
Non ho avuto percezione di quante donne suonassero la chitarra fino a quando non andai al Guitar Institute of Technology, dove ero l’unica in mezzo a 59 ragazzi. Gli ambienti dei creativi, in realtà, sono difficili per tutti, quindi non posso dire se tutte le volte che non ottenevo un ingaggio era dovuto al fatto che fossi donna. Certe voci mi sono arrivate, e non erano amichevoli, ma non ce l’hanno fatta a fermarmi.
Nel suo libro, Agassi maledice i pubblicitari che in uno spot gli fecero dire “l’immagine è tutto”. È mai stata a disagio con la sua acconciatura?
Oh sì, sempre, ma quei capelli erano un’idea di Michael, non li avevo quando feci l’audizione e non mi sono mai permessa di dire nulla, perché lui aveva quella visione di me. Ingaggiò un curatore di look per ogni musicista, così il taglio mohawk che avevo al tempo durò solo per la prima parte del tour giapponese, e poi la cresta si ammorbidì. Solo l’immagine dell’ultimo tour fu orribile, con quella maschera di pelle sulla faccia. Però, quando mi rivedo, spengo il cervello e mi rendo conto che si trattava di spettacolo, oltre che di musica. E la musica per Michael rappresentava le fondamenta di uno spettacolo nel quale lui era, anche, un personaggio.
Ci racconta quel casting per Michael Jackson?
Quando arrivai sul posto lui non c’era, e nemmeno nessuno della band, così mi ripresero con una telecamera, per poi sottoporgli il tutto. Non c’erano basi registrate, l’unica persona che avevo davanti mi disse di suonare del funky, da sola, io e la mia chitarra. Poi suonai la mia versione in tapping di “Giant steps” di Coltrane, e siccome conoscevo l’assolo di “Beat it”, che suonavo con una cover band, pensai che sarebbe stato utile, e chiusi con quello. Ventisei anni dopo, finalmente, sono riuscita a rivedere quell’audizione e a leggere le note di Michael, che dicevano “grande!”.
Potrà immaginare la curiosità. Pensa che un giorno si potranno vedere?
Mi piacerebbe renderle pubbliche. La cosa che mi frena è che la parte più debole di tutto quello che suonai fu proprio l’assolo di “Beat it”. Quindi è possibile che non pubblicherò un bel niente…(la risata è fragorosa, ndr).
Memorie di un Re del Pop…
Ho bei ricordi. Durante le prove del tour di “Bad” noi musicisti passavamo con lui molto tempo, ma l'entourage era così grande che ci dividevamo sempre in almeno tre hotel. All’inizio mi dispiaceva, ma una volta entrata nel suo albergo, dopo aver visto l’inferno che gli girava intorno, non ho avuto rimpianti: ragazzini sotto le finestre tutta la notte a cantare le sue canzoni, e almeno dieci persone sempre al suo fianco, per fare tutto.
Non sembra una gran vita, in effetti…
No. Michael era decisamente un uomo in prigione.
Pensa fosse responsabile di tutto quello di cui fu accusato?
No. Chi ha tanto denaro ha intorno gente che ne vuole una fetta. L’ultimo suo accusatore aveva una lunga storia di cause intentate per nulla, incluso fingere di inciampare sul pavimento di un negozio per chiedere un risarcimento, con l’aiuto di avvocati compiacenti che, evidentemente, non faceva fatica a trovare. Questo padre, che accusava Michael di molestare il figlio, fu smentito dal figlio stesso, che in seguito ne chiese l’allontanamento da sé, ed insieme quello della madre. Poco dopo la morte di Michael, quel padre si uccise. Ecco, a me quel suicidio sembra un'ammissione di colpa. Ma è una storia poco nota, perché non fa notizia.
Il suo ricordo più bello di lui?
Il Superbowl, davvero speciale (gennaio 1993, ndr). Fu l’unica volta in cui vidi Michael nervoso. Era una cosa enorme, in diretta, e se qualcosa fosse andato storto, sarebbe passato alla storia in quel modo. Aveva grande pressione addosso, e un miliardo e mezzo di persone davanti…
…anche lei, però, aveva un miliardo di persone davanti…
Sì, ma io pensavo a divertirmi. Sono sempre stata a mio agio con ogni tipo di pubblico, in ogni luogo, con qualsiasi tipo di acustica. I concerti più divertenti della mia vita sono avvenuti in posti piccoli, come quello in cui siamo ora. E non amo i teatri con la gente seduta, dalla quale non hai mai feedback.
Ha suonato con Jeff Beck, il suo eroe. Altri eroi con i quali vorrebbe suonare?
Ai tempi di “So” avrei voluto suonare con Peter Gabriel, ho amato quel disco. Potrei citare Afro Celt Sound System, che è una delle mie band preferite. Ecco, non so se sarei all’altezza, ma se esistessero ancora, vorrei suonare con i Weather Report.
Il suo presente sono i concerti e DVD didattici...
Sì, ripongo qui le mie energie. La scorsa estate ho attraversato l’America per due mesi con un seminario chiamato “Auto-potenziamento per il musicista moderno”, nel quale condivido con i musicisti le informazioni che ho raccolto in trent’anni di questo mestiere, a partire dall’insegnamento di come imparare una canzone, che potrebbe sembrare stupido, ma implica meccanismi molto interessanti che riguardano la mente. È un lavoro che alla fine porta i musicisti a provare un intero repertorio in tre, quattro ore, se non ci sono mesi di prove a disposizione. Quando si suona insieme, tutti devono arrivare preparati, senza scuse. L’impreparazione mi fa imbestialire.
Al Guitar Institute of Technology di Los Angeles, lei ci tornò anche da docente. Com'è cambiato l'insegnamento della musica oggi?
È cambiato tutto. Da insegnante ho speso una quantità ridicola di tempo trascrivendo le partiture, e adesso mi basta dire “porta il tuo smartphone”, oppure “guardati il video”. Tutta la comunicazione si è semplificata, la puoi scaricare, su YouTube puoi vedere a velocità ridotta le esecuzioni e capire esattamente dove stanno le dita sulla tastiera. Fenomenale, quanto avrei voluto avere tutto questo quand’ero teenager! Se penso che ai miei tempi dovevo spostare la puntina del giradischi avanti e indietro centinaia di volte per riascoltare, facendo andare fuori di testa la mia famiglia…
A quando un disco nuovo?
Non ha più senso. Perché spendere tutti quei soldi per della musica che poi ti rubano? Sarebbe come dare dieci dollari a tutti quelli che vengono a un mio concerto...