Culture

Pape ‘Poèt’ aleppe

8 maggio 2015
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Il professor Paolo Orvieto ci accompagna nel mistero di uno dei più celebri versi dell’Inferno di Dante.

Pluto invocava Satàn, noi l’autore che gli ha messo in bocca quell’endecasillabo splendido e misterioso, non senza divertirsi con i posteri…

Quando è ancora agli inizi del suo lungo cammino di purgazione, e la tensione verso il mistero celeste richiede una discesa preliminare nel Male, nel Canto 7 dell’Inferno Dante varca il quarto e il quinto cerchio. Qui troverà, per la prima volta, due gruppi di dannati che espiano assieme la propria colpa: spingono senza sosta un peso lungo il perimetro di un cerchio, sempre scontrandosi e maledicendosi a vicenda in due punti opposti; sono gli avari e i prodighi. Poi Dante si interroga sull’ordine della Fortuna, infine scende nello Stige, dove gli iracondi si pestano e mordono furiosamente, mentre gli accidiosi sott’acqua fanno ribollire la palude con i loro cattivi pensieri. Prima di tutto questo, però, il poeta dovrà oltrepassare la guardia di Pluto e il suo grido, ammonizione, invocazione: “Pape Satàn,pape Satàn Aleppe!”. È questo uno dei versi più celebri dell’intera Commedia, di certo il più misterioso. Centinaia di interpreti nel corso dei secoli hanno prodotto altrettante ipotesi attorno al suo senso, alcune molto fantasiose. Proprio a questo verso e alle sue molteplici letture Paolo Orvieto, storico professore di Letteratura italiana all’Università di Firenze, ha dedicato un saggio (e ovviamente una sua interpretazione), di cui parlerà lunedì 11 maggio alle 18.30 al Palazzo dei Congressi di Lugano (Sala E) in una conferenza promossa dalla Società Dante Alighieri, ‘Un secolare rompicapo dantesco’.

Partiamo dal suo saggio su ‘Studi Danteschi’: che cosa la ha indotta a cimentarsi con quel verso? Avevo cominciato studiando le varie interpretazioni e ne ho trovate più di cento. A un certo punto è diventata non solo un’indagine erudita e filologica, ma anche comica. C’è di tutto, chi pensa che sia latino, chi greco, chi francese, chi arabo, chi addirittura dialetto orvietano... Insomma, è diventato un mistero affascinante, anche perché Dante, intenzionalmente o preterintenzionalmente, ha lasciato ai posteri l’interpretazione di questo verso; traducibile o intraducibile, in una lingua che esiste o forse non esiste o forse è deformata da questo mostro infernale.

Quali sono state nei secoli le letture più fantasiose? A parte quelle dei primi interpreti, del ’300 e ’400, che sono abbastanza simili e in un certo senso plausibili, dal ’500 in poi con Benvenuto Cellini e gli altri si va nelle ipotesi più incredibili. Addirittura uno pensa che sia una versione grafica di un ideogramma a forma di uncino e quindi rappresenterebbe le corna del diavolo. Oppure uno pensa che sia un dialetto maltese in cui ancora sopravvivono alcune espressioni ebraiche. Un altro pensa che sia dialetto di Orvieto, in dieci poi pensano che sia francese ma ognuno dà un’interpretazione completamente differente. Direi che su cento almeno settanta sono fantasiose, per non dire folli; del resto la presunzione del critico è infinita. D’altra parte, mentre in Inferno 31, dove si legge “Raphèl maì amècche zabì almi”, Dante dice chiaramente che è una lingua inesistente, nel nostro caso il verso è capito perfettamente da Virgilio che risponde per le rime a Pluto.

Ecco, qual è il metodo di ricerca per capire che cosa vuol dire? Il problema fondamentale è capire in quale lingua si esprima. La mia conclusione è che si tratta di una lingua preadamitica, un protoebraico che poi si è confuso nelle tante altre lingue. Che si tratti di una lingua ben precisa e che Pluto voglia dire qualcosa per spaventare, per scoraggiare o per invocare Satana, è indubbio. Io parto da quell’“aleppe”, quasi tutti gli interpreti sono concordi nel dire che si tratta di “alef”, la prima lettera dell’alfabeto ebraico; come Giuseppe viene da Yosef. Poi, studiando i vari cabalisti, fra cui Abulafia, ho visto che “alef” è una lettera impronunciabile che serve a pronunciare tutte le altre lettere, quindi è assimilata alla somma divinità. Abulafia, ben conosciuto ai tempi di Dante, ha scritto dei trattati su come, secondo lui, attraverso la miscelazione delle lingue si poteva arrivare a concepire il tetragramma, cioè Dio. Pluto quindi invocherebbe Satana come il Papa e il sommo Dio.

 

L’ANNIVERSARIO 

Poesia, umanità, moralità

La conferenza che il professor Paolo Orvieto terrà lunedì a Lugano, ‘Un secolare rompicapo dantesco: Pape Satàn, pape Satàn aleppe!’, ci è parsa un’occasione buona per parlare di Dante a 750 anni dalla nascita (l’anniversario ricorre fra il 22 maggio e il 13 giugno). Una figura, quella del “sommo poeta”, oggi ancora ben presente o invocata, stando almeno al pubblico richiamato dalle Lecturae Dantis organizzate un po’ ovunque: da quelle di Roberto Benigni alle molte che riempiono scuole, auditori e sale comunali di paese, anche in Ticino. Ritorniamo un momento al verso del Canto 7 dell’Inferno, “Pape Satàn, pape Satàn Aleppe!”, per toglierci un dubbio con Palo Orvieto. Ma Dante, da genio illuminato, consapevole di sé e forse un po’ goliardico, si è voluto divertire a lasciare ai posteri un mistero poetico insolubile? «Senz’altro ha voluto lasciare una sorta di provocazione, di enigma o di sciarada: risolvetela voi, insomma. Alla fine diventa un’indagine divertente, quasi una commedia, una farsa».

Non solo letteratura

Dante, per quanto abbia conosciuto secoli di abbandono nella cultura italiana, ci è giunto in definitiva avvolto dall’aura legittima, a tratti retorica, del “Sommo”, del “Padre della lingua”, del genio inarrivabile che nell’architettura celeste del suo capolavoro, la Commedia, ha assunto su di sé e trasfigurato in letteratura l’essenza di un’esperienza al contempo umana e ultraterrena; per affacciarsi, tremante e accecato, sul mistero luminoso dell’infinita grazia. Ma qual è la ragione più autentica per cui, oggi, Orvieto consiglierebbe a un lettore di (ri)prendere in mano Dante? «A parte il fatto che i grandi della letteratura, pochi, non passano mai di moda, io ho appena licenziato un libro su De Sanctis, il quale citava spesso Simonde de Sismondi; che amava affermare che Dante è stato l’unico non solo sommo poeta ma anche grande uomo: cittadino, politico, uno moralmente ineccepibile che ha combattuto per i suoi ideali. Dopo di lui hanno fatto solo letteratura. E forse oggi avremmo bisogno di diversi Dante, persone con un altissimo senso morale, civile, patriottico».

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