Ticino

‘Avverto che vi siano più coltelli nelle mani sbagliate’

Il dottor Carlo Calanchini ha scritto pagine delle maggiori inchieste negli ultimi trent’anni. Con lui abbiamo affrontato il ruolo di perito psichiatrico

Il dottor Carlo Calanchini
10 ottobre 2022
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Il dottor Carlo Calanchini ha scritto pagine delle maggiori inchieste portate avanti dalla Magistratura ticinese negli ultimi trent’anni. Sua è la perizia psichiatrica per l’accoltellamento alla Manor di Lugano (24 novembre 2020), per mano di una giovane donna condannata per terrorismo, sua quella in merito al matricidio di Avegno (10 aprile 2022), all’assassinio di Stabio (14 ottobre 2016), al delitto di Obino (25 marzo 2010), all’omicidio Diebold (10 novembre 2010), al giallo di Verscio (27 maggio 2003), al Ticinogate (estate 2000).

Gli ultimi processi, altamente mediatici, hanno riportato d’attualità il ruolo del perito psichiatrico forense. Come lo si diventa?

Non esistono delle qualifiche precise, ma si richiede che la persona incaricata sia competente ed esperta. Oggi è riconosciuta una sottospecialità, la psichiatria e psicoterapia forensi, ma non è indispensabile come, in teoria, non è indispensabile essere psichiatra. Bisogna però essere un esperto. Quindi se un professionista di altra formazione, come uno psicologo, dimostra di essere in grado di fare una perizia, gliela si può affidare. E ciò avviene, soprattutto in ambito civile. Le perizie criminologiche sono, invece, un’altra cosa essendo più concentrate sul reato che sul prevenuto. Inoltre, il criminologo non ha esperienza clinica, che è molto importante. La prassi è che ci si rivolga a uno psichiatra, specialista in psichiatria o psicoterapia con il titolo FMH o equivalente. Poi il magistrato può scegliere autonomamente il perito (di regola con il consenso di imputato o patrocinatore) e lo sceglie in base alle esperienze che ha fatto. Quindi se qualcuno ha dato delle prove soddisfacenti riceverà altri incarichi. È così che funziona.

Lei è sollecitato da diversi anni e per questo figura fra i maggiori esperti.

Ho cominciato a lavorare in questo ambito nel 1986, quindi sono 35 anni abbondanti. Credo che, anche per una questione di anzianità, sono quello che ha fatto più perizie. Non saprei dirle quante ne ho fatte, ma dire sulle trecento o qualcosa di più significa avvicinarsi al numero esatto. Se calcolo tutto il resto, oltre alle perizie penali, arrivo sulle cinquecento.

C’è ampia libertà di accettare o meno una perizia?

Devo dire di no se sono sovraccarico, come è capitato. Devo poi rifiutare nel caso in cui ci fosse un conflitto di interessi, il che è successo rarissimamente. Mi è stato chiesto, per esempio, di occuparmi di una perizia di una persona che io avevo già visto, sia pure una volta sola, in sede di Commissione per la rivalutazione dei condannati pericolosi. La persona, prima della condanna, era già stata valutata da un collega. Da parte mia, in quell’udienza avevo avuto l’impressione che la perizia dovesse essere attualizzata, ma non l’ho fatto io, bensì un mio collega. Che ha confermato i miei sospetti.

Il perito ha spesso un compito ‘ingrato’, in quanto è chiamato a valutare quella che in gergo profano possiamo indicare come la lucidità di una persona. Si è mai trovato in difficoltà, anche per il caso umano?

Quasi tutte le volte. Quando si affronta un caso (parliamo delle perizie penali), ci si confronta pur sempre con una persona che ha avuto delle difficoltà, dei problemi e ha creato dei problemi. E la reazione del perito non può essere di perfetta neutralità, anche a seconda del reato che ha commesso. Quindi, una delle difficoltà, spesso sottostimata, è quella di potersi e sapersi depurare dalle proprie emozioni, anche verso un delinquente che può ispirarmi una profonda antipatia. È necessario essere oggettivi e non condizionare il referto. In un paio di casi questo è stato l’aspetto più difficile di tutta la perizia, dove vi è un imputato, per esempio, che ha vissuto tutta la sua vita a danno della società: ciò può suscitare profonda avversione. Però bisogna a un certo punto far la tara da tutte queste reazioni emotive. Il mio compito resta quello di accertare se vi sono (o vi sono state al momento dei fatti) delle turbe psichiche, se sono in relazione con il reato commesso, se vi è un pericolo di recidiva e quali sono le eventuali possibilità di cura.

Sente spesso, nel giungere a conclusione del referto, il peso di una responsabilità?

Certo. Il compito del perito è molto difficile e pesante. Perché comporta delle responsabilità nei confronti della persona che viene peritata, che va valutata in modo equo, in scienza e coscienza, come dice il mandato. E delle responsabilità nei confronti della società. Non basta valutare il grado di imputabilità e il rischio di recidiva occorre indicare provvedimenti più adeguati. Perché fra i compiti vi è anche la definizione delle misure terapeutiche, che possono essere diverse da caso a caso. Per far questo, l’esperienza clinica è indispensabile.

Come bilancia la scienza e la coscienza?

Sono due condizioni che si integrano e si aggiungono una all’altra. Ma non sono una contro l’altra. La psichiatria è una scienza non esatta ma al suo interno bisogna fare il possibile per raggiungere il massimo di certezza possibile. Ed è un notevole sforzo. Anche perché lo si può fare quando il quadro clinico è chiaro. Poi c’è la coscienza; non dobbiamo intenderla come l’essere tranquilli a proposito delle proprie conclusioni. Posso, infatti, provare compassione in un caso e profondo disprezzo nell’altro, ma questo non deve incidere sulla valutazione della condizione psichica e della rilevanza penale. Certo non è sempre facile. Per questo fare una perizia non è una bagatella, bisogna anche lasciar decantare le proprie emozioni, analizzarle e valutarle. Prima di dire "è così", è necessario aver fatto veramente un esame di coscienza.

Il caso del ragazzo, non imputabile, di Avegno potrebbe sollevare perplessità nell’opinione pubblica. Come giustificare una decisione che può essere vista come ’forte’?

Si potrebbe aprire un discorso filosofico: c’è chi dice che in fondo siamo responsabili delle nostre azioni e non ci sono eccezioni. Credo che la questione della responsabilità si possa applicare a chi è in grado di sapere cosa sta facendo, condividendo quel sapere con la collettività. Allora, se io so che uccidere è male, ma decido di farlo perché voglio eliminare una persona è un conto, se però sono convinto che la persona che voglio uccidere è un mostro, che mi minaccia, che ha abusato di me, che gli spiriti mi dicono che devo uccidere perché è un bene superiore, e io comincio a delirare in questo, ecco che quella condivisione di valori non c’è più. Perché il soggetto che "vive" di queste cose è in un altro mondo, non ha più un rapporto con la realtà, quindi i parametri si alterano. Ed è per questo che non può essere imputabile.

Come si può essere certi che non lo rifarà?

Se restiamo sul caso precedente possiamo dire che il reato è l’uccisione della madre e di madre ce n’è una sola, il che esclude la recidiva. Potrebbe uccidere qualcun altro? È poco probabile, perché un reato di questo genere è determinato da una relazione che non è riproducibile. Non è come se uno uccidesse la fidanzata o la moglie o l’amante, perché potrebbe avere altre fidanzate, altre mogli, altre amanti. Invece il rapporto con la madre è unico, irriproducibile.

Nella sua carriera c’è un fil rouge che unisce tutti o la maggior parte dei casi?

Alcuni casi si assomigliano, ma non ci sono dei denominatori comuni. Ci sono dei casi che assomigliano a dei precedenti storici. Pensiamo al matricidio e all’intreccio dell’Amleto che per certi aspetti richiama la trilogia di Eschilo. Duemila anni li dividono ma certi temi si ripresentano.

Ha notato se l’essere umano utilizzi la violenza con più facilità rispetto al passato?

Rispetto a qualche decennio fa c’è un po’ più di violenza, ma le statistiche non sono chiare, anzi, tenderebbero a dire che è diminuita. Ho l’impressione che in circolazione vi siano un po’ più di coltelli nelle mani sbagliate. Ma se andiamo, per esempio, al Seicento, tutti (per riprendere un’affermazione iperbolica dello storico Alessandro Barbero) avevano ucciso qualcuno, perché era all’ordine del giorno scontrarsi a mano armata. Anche padre Cristoforo del Manzoni aveva ucciso per futili motivi.

Le capita di ripensare ai suoi casi, di rivedere qualcuno aiutato dalla sua perizia a ricostruirsi una vita?

Ricordo una perizia in ambito assicurativo e che ci ha portati al Tribunale federale, dove la persona per il quale avevo riconosciuto una inabilità al lavoro aveva vinto. È venuto a ringraziarmi, un gesto che ho apprezzato molto. Un’altra situazione mi ha commosso, quella di un omicida che – pur con una condanna pesante – ha chiesto, anche se non sarebbe stato possibile, di essere seguito da me. La mia perizia in qualche modo gli aveva chiarito certe idee, si era sentito capito, anche se la perizia non è di per sé un atto terapeutico.

C’è un caso che l’ha particolarmente impegnato?

Più di uno. Una perizia soprattutto è stata lunghissima. Perché più studiavo il caso più affioravano elementi che richiedevano approfondimenti. Finire la perizia è stato un sollievo perché di solito ci metto circa due mesi, quella volta sono stati circa otto. Ogni settimana si scopriva che ne aveva combinata un’altra e tutto ciò non aumentava certo la mia simpatia per il soggetto. Il dispendio di tempo ed energie (sempre nel cosiddetto "tempo libero") può pesare.

Non è dunque stanco e vorrebbe dire basta?

Per più di un anno, forse è stata la fase Covid, non sono stato consultato. Era magari dovuto al fatto che avevo preso delle posizioni che non a tutti i giudici erano piaciute. Come quella volta che sono andato in aula per illustrare la perizia e il giudice mi ha attaccato a testa bassa. Siamo stati due ore a discutere, sembrava che l’imputato fossi io, tanto che ho fatto un esposto al Consiglio della magistratura. In quel caso ho sentito che c’era qualcosa che non andava (e non sono stato il solo...). Qualche anno prima ero addirittura stato oggetto di un atto parlamentare perché (si sosteneva) avrei emesso una nota d’onorario esagerata (documentata fino all’ultimo centesimo). Nonostante queste spiacevolezze, continuo a fare questo lavoro perché è interessante e costituisce un complemento di conoscenza psichiatrica e psicoterapeutica e, ancor più, antropologica che la sola attività clinica non consente di fare.


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Nella testa degli altri

L’incarico del Ministero pubblico

Sette periti per trenta perizie

Ma come vengono ‘individuati’ gli specialisti? Quali i canali utilizzati all’interno di un’inchiesta dai procuratori al fine di incaricare un perito? Interrogativi che abbiamo girato allo stesso Ministero pubblico del Canton Ticino.

Esiste un elenco o un albo psichiatri dove il Ministero pubblico può accedere quando vi è la necessità di una perizia?

Quando vi è la necessità di disporre di una perizia giudiziaria, l’autorità giudiziaria (il Ministero pubblico ma anche i Tribunali) si avvale di una serie di specialisti di riferimento che di principio hanno svolto una formazione riconosciuta a livello svizzero in ambito di psichiatria forense. In Ticino vi sono attualmente sette psichiatri di riferimento, con le necessarie competenze peritali. Tuttavia può accadere per casi particolari, di far capo anche a specialisti attivi in altri Cantoni o all’estero.

Quali sono i criteri nella scelta del perito?

La tematica è regolata dagli articoli 182-191 del Codice di procedura penale (Cpp). L’art 184 stabilisce in particolare la nomina e il mandato. Il perito è nominato da chi dirige il procedimento. Chi dirige il procedimento assegna al perito un mandato scritto; il mandato contiene: la designazione del perito; eventualmente, l’annotazione secondo cui il perito può, sotto la sua responsabilità, impiegare altre persone per l’elaborazione della perizia; quesiti formulati in modo preciso; il termine per presentare la perizia; l’avvertimento che il perito e i suoi eventuali ausiliari sottostanno all’ob­bligo del segreto; l’avvertimento circa le conseguenze penali di una falsa perizia secondo l’articolo 307 del Codice penale. Il perito giudiziario è un ausiliario delle autorità penali nell’accertamento della verità materiale. In tale veste il perito è un "altro partecipante al procedimento" (art. 105 cpv. 1 lett. e Cpp), che interviene nel procedimento penale in ragione delle proprie specifiche conoscenze e competenze tecniche in uno specifico campo. Il perito può far capo a un perito ausiliario così come a personale ausiliario (l’ausiliario del perito). Il perito ausiliario del medico psichiatra è quindi colui che collabora in forza delle sue competenze tecniche, come ad esempio lo psicologo incaricato dell’esecuzione degli esami testistici. L’ausiliario del perito è invece ad esempio il personale amministrativo dello studio incaricato di trascrivere la perizia.

Quante perizie in media all’anno vengono richieste?

Dati alla mano, si conta una media di una trentina di perizie psichiatriche ogni dodici mesi.

Qual è in media il costo per una perizia?

Premesso che ogni caso va trattato come caso a sé stante, per la sua storia, le sue dinamiche, la sua particolarità giuridica, possiamo dire che, in media, una perizia implica un costo di circa 10mila franchi.

Non vi è all’interno dell’Amministrazione cantonale (pensiamo, per esempio, al Dipartimento sanità e socialità) personale preposto a questo compito?

Tra le persone che ricevono mandati peritali e che quindi dispongono dei requisiti richiesti vi è anche uno specialista attivo nell’Amministrazione cantonale.

La testimonianza

‘Rivoltato come un calzino’

«Non è facile portare a galla quanto spesso si vive, inconsciamente, nel proprio profondo. Però, lo ammetto, può aiutare. A me è andata così». Chi ci parla è un uomo che in passato ha avuto a che fare con la giustizia. Preferisce non accennare sul giornale al reato, «temo sempre che mi riconoscano», ma si dice disponibile di portare la sua testimonianza da peritato. «Ti senti come un calzino rivoltato – ci dice –. Quel gesto che tu hai compiuto viene analizzato a fondo, scandagliato, scorporato, ricostruito, analizzato. La perizia l’ho vissuta come una radiografia della mia vita, dei miei sentimenti, dei miei atti...».

Quella perizia l‘ha aiutato del resto a ricostruirsi un’esistenza ’pacifica’, «con me stesso in primo luogo e con i miei cari, anche». Di questa parentesi, dolorosa ed estrema, «porto soprattutto la riconoscenza per essermi sentito compreso, pur colpevole... Un‘analisi, quella del perito incaricato, che mi ha sostenuto, con accorte misure di ’cura’, nel riprendere in mano quanto mi stava sfuggendo. Comprendere i miei sbagli, la mia volontà distorta, i miei disagi interiori sono stati una panacea, e se il reato resta, qualcosa dentro di te può essere alleggerito, ‘sollevato’...».

Dalla rabbia alla consapevolezza

Spesso chi compie gesti estremi, che vanno oltre la normalità umana, il non concepire il lecito e l’illecito, può essere indicato come un pazzo, un sovversivo: «Nel mio caso tutto nasce da uno sguardo, sul problema che vivevo, inquinato da rancori, rabbie, incomprensioni. Mi sentivo nello stomaco come un verme che mi mangiava certezze e lucidità. Ero confuso, spesso ansioso e in disequilibrio fra corpo e mente, fino a quel giorno che tutto è esploso improvvisamente, dentro e fuori di me, così da portarmi dalla sera alla mattina in carcere».

Sono seguiti giorni bui e di introspezione, fino all’incontro con il perito: «Con lui ho trovato una lettura per quello che avevo fatto e per quanto avrei dovuto fare per uscirne, se non dalle sbarre almeno dai miei sensi di colpa. Ho ritrovato una strada, e seppur nei primi mesi si è presentata buia e irta di ostacoli, col tempo ha ritrovato una più serena direzione. Quella via che ora seguo con passi consapevoli... perché se uno cade ha tutto il diritto di risollevarsi!».

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