L'APPROFONDIMENTO

Il Ticino ha l’oro in bocca. Fra opportunità e rischi

Qui viene lavorata la maggior parte di tutto l’oro mondiale. Un lungo colloquio col Ceo di Argor, le critiche di Dick Marty e i dubbi di Unia

18 febbraio 2020
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È una cosa strana, l’oro purissimo: quando lo vedi lì, dentro uno scatolone in attesa di finire in fonderia, sembra quasi un pezzo di polistirolo colorato con lo spray dorato, una cosa fasulla. E invece, quando l’operaio lo butta nel fuoco, scioglie il valore di un villino con piscina. Roba da matti, anche quella: chissà perché l’oro è così importante, come deposito di valore e come lusso. È raro, va bene: con tutto quello estratto fino a oggi ci fai un cubo alto 20 metri, o poco più. Ma è pur sempre solo un metallo. “Non fa altro che star fermo a guardarti”, si lamentava un megainvestitore internazionale come Warren Buffett, mentre l’economista John Maynard Keynes lo definiva “barbara reliquia”. Forse a far la differenza è anche quel luccichìo che va bene per un lingotto o un vitello d’oro, un Rolex o la maschera di Agamennone. Ma non divaghiamo.
In Svizzera si lavora circa il 70% dell’oro estratto o rifuso dopo un precedente utilizzo. La maggior parte passa dal Ticino. A Mendrisio fra le altre (Valcambi e Pamp) c’è la Argor-Heraeus, una raffineria di metalli preziosi, circondata da alte mura in stile Fort Knox. Ha 350 dipendenti occupati in servizi di fusione e lavorazione dei metalli preziosi, che cerca di comprare e vendere allo stesso prezzo nello spazio d’un istante per evitare rischi.
Una decina di giorni fa l’Associazione delle industrie ticinesi (Aiti) ha organizzato una visita a quel mondo fatto di fonditori e chimici, ma anche di venditori e avvocati, e noi ne abbiamo approfittato per parlare con Christoph Wild, il Ceo di Argor. Appenzellese cresciuto a Sciaffusa, ma momò da trent’anni, ha una faccia che ricorda quella di Robert Mitchum e una pronuncia ancora tutta germanizzante.

Wild, cosa fate qua dentro?
Forniamo tutti i servizi che ruotano attorno alla lavorazione dei metalli preziosi fisici. Non facciamo speculazione, ma possiamo tanto lavorare l’oro altrui, quanto farne compravendita, anche immediatamente per limitare i rischi del corso.

Come inizia la vostra storia su questo territorio? E cosa vi ha spinto a restarvi fedeli negli anni?
Nasciamo nel 1951 a Chiasso come Argor, la prima raffineria di metalli preziosi del nostro cantone. Nel 1988 ci siamo trasferiti a Mendrisio, dove risediamo tutt’ora. Una presenza che è andata espandendosi negli anni con il raddoppio della superficie produttiva. Penso che il motivo della nostra permanenza in Ticino sia da ricercare proprio nelle radici storiche sul territorio, nella volontà di investire nella sua crescita e nel buon rapporto instauratosi con tutte le controparti.

I metalli preziosi potrebbero arrivare anche da paesi in guerra, o comunque rischiano di avere una provenienza controversa. Cosa fate per evitarlo?
Anzitutto, noi non lavoriamo assolutamente con paesi in guerra e rispettiamo tutte le sanzioni e gli embarghi internazionali. Poi facciamo di tutto per effettuare una buona due diligence. Ci atteniamo a tutte le leggi nazionali e internazionali, orientate dai principi dell’Ocse. Di più: abbiamo escluso dai fornitori anche quelli di paesi con i quali in teoria potremmo commerciare liberamente, ma che non rispettano i nostri standard di controllo. E ci preoccupiamo anzitutto di verificare l’integrità di tre pilastri: diritti umani, rispetto dell’ambiente e diritti di proprietà. Significa ad esempio che non compriamo oro da paesi non democratici, che non acquistiamo dalle miniere che utilizzano mercurio in maniera irresponsabile nell’estrazione o sfruttano lavoro minorile, che ci riforniamo principalmente da miniere industriali e scarti già in circolazione. Facciamo tutto quanto in nostro potere per evitare che da qui passi il risultato di traffici illegali.

In passato, però, siete stati lambiti da due scandali. Nel 2004 siete stati accusati di avere raffinato quasi tre tonnellate d’oro proveniente da un gruppo armato in Congo, anche se la provenienza dichiarata era l’Uganda: cosa strana, dato che l’Uganda di oro ne ha pochissimo. Il Ministero pubblico della Confederazione ha detto che “avreste dovuto sapere”, ma ha chiuso l’inchiesta per mancanza di prove.
Dice correttamente, non è mai stato provato in nessun modo che a noi fosse giunto materiale legato ad attività criminali, e ribadisco che noi non ne sapevamo nulla. All’epoca, era il 2004, non esistevano gli attuali standard di due diligence. Il caso ci ha comunque spinto ad adottare standard e precauzioni ancora più accurati nell’approvvigionamento, standard che vanno oltre quanto richiesto dalla legge. E certo, col senno del poi ci dispiace quanto è successo.

Però un altro scandalo è scoppiato in Colombia solo l’anno scorso: si temeva che dalla Svizzera fosse passato oro estratto illegalmente e con grandi danni per l’ambiente, potenzialmente utilizzato per riciclare i proventi di un traffico di droga. Va detto che in questo caso, anche se è stato fatto il nome di Argor, non sono state formulate accuse.
Il caso colombiano è diverso. Bisogna stare attenti a non giudicare troppo in fretta! Ad essere accusati sono singoli individui legati al gruppo col quale abbiamo lavorato nel pieno rispetto della legge, dopo ampia due diligence e colloqui approfonditi con la autorità locali e la Banca centrale della Colombia. I sospettati sono stati arrestati, ma liberati dopo solo due giorni. Noi poi abbiamo subito sospeso i rapporti con la società in attesa che si chiarisca la situazione. Quindi…
È importante anche per noi che Ong e testimoni segnalino i casi controversi, perché evitare un coinvolgimento e non essere utilizzati per transazioni illecite è la nostra priorità: non a caso per il materiale di estrazione primaria ci affidiamo per la grande maggior parte a grandi gruppi assolutamente controllati, ma miriamo anche ad aiutare il settore delle miniere artigianali, se lavorono secondo i nostri criteri e se sono in grado di soddisfare i nostri standard di trasparenza.

Quindi per voi l’iniziativa per multinazionali responsabili, che estende alle imprese svizzere la responsabilità civili per malversazioni condotte dalle filiali all’estero, non dovrebbe essere un problema. Lei invece è stato piuttosto netto nel respingerla.
Guardi, noi siamo perfettamente d’accordo con gli intenti dell’iniziativa. Ma il rischio è che si rovesci l’onere della prova sull’accusato. Secondo noi si possono creare situazioni nelle quali si è chiamati a rispondere di azioni che è impossibile comprovare. Così si rischia di creare incertezze giudiziarie e perdere un vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti esteri.


Ma se fate già i controlli, in caso di accuse vi basterà girare il faldone al giudice e dormire sereni, o no?
Questa purtroppo è l’idea un po’ romantica degli iniziativisti. La verità è che diventa difficile disporre di tutto il materiale necessario per difendersi: noi lo abbiamo vissuto nel 2004. La Svizzera vuole fare la prima della classe, ma rischia di mettere a rischio la certezza del diritto.

Però le regole sulle ‘red flag’ esistono già anche altrove: penso al Dodd-Frank Act introdotto negli Usa nel 2010, nato per riformare Wall Street dopo il disastro dei subprime, ma contenente anche obblighi e limitazioni estensive per il mercato dei metalli preziosi.
Ma non è radicale come l’iniziativa. E ci ha comunque portato a non approvvigionarci più, ad esempio, da miniere del Congo anche perfettamente certificate e controllate: potremmo farlo, ma dato quel quadro giuridico preferiamo non rischiare. Però questo significa non sostenere il lavoro laggiù.

Suppongo che l’idea sia quella di stare dalla parte del sicuro in paesi dilaniati da bande armate e violenze.
Certo. Però intanto si nega loro la possibilità di sviluppo economico, e si permette ad esempio a paesi come la Cina di riempire quel vuoto, e soprattutto si fa fiorire il mercato grigio. Questo è un fatto ampiamente dimostrato, e parliamo del più grande paese africano.

Il vostro fatturato l’anno scorso ha raggiunto i 72 milioni di franchi, qual è l’utile?
Non glielo posso dire, dato che non siamo un’impresa quotata in borsa (Argor appartiene totalmente alla famiglia tedesca Heraeus ed è parte di un conglomerato internazionale: il gruppo è nella lista Fortune delle 500 imprese più grandi del mondo, ha ricavi per 20 miliardi di euro ed è una delle dieci imprese famigliari più grandi in Germania, ndr). Posso però dirle che la cifra che fatturiamo per la lavorazione equivale mediamente all’uno per mille del valore del materiale. Con margini di questo tipo è necessario fornire servizi diversificati ai clienti, che si tratti di banche nazionali e private e investitori istituzionali (quelli per i quali si coniano i lingotti e sono metà della domanda totale, ndr) oppure aziende dell’orologeria e del lusso (che costituiscono circa il 30% del fatturato, ndr) o ancora aziende che utilizzano i metalli preziosi per applicazioni tecnologiche.

Il vostro business è controciclico? Funziona cioè meglio quando c’è scompiglio nei mercati e la gente corre verso beni rifugio?
Piacerebbe anche a me avere una risposta univoca a questa domanda. Se è vero che in casi come la crisi dei subprime o quella greca si registra una corsa al lingotto, non c’è sempre correlazione fra ciclo economico e valore dell’oro. Per questo è anche importante diversificare, ad esempio servendo sia le banche che l’orologeria: ovvero chi vuole oro per amore del valore e chi per amore della bellezza, come succede da più di seimila anni.

Banche, orologeria, oro: tutte cose che più svizzere di così non si può. Come mai i metalli preziosi passano tutti da qui?
Banche che funzionano, certezza del diritto, neutralità, stabilità politica, presenza di manodopera qualificata, logistica efficiente.

Durante la Seconda guerra mondiale la neutralità permetteva alla Svizzera di incamerare oro in cambio di franchi, unica moneta abbastanza solida che fosse anche convertibile per finanziare lo sforzo bellico. A servirsene fu anzitutto il Terzo Reich.
Io non ero ancora nato, ma credo sia difficile giudicare le scelte di un Paese accerchiato, che lotta per la sua stessa sopravvivenza, in modo univoco.

Un altro ‘salto di qualità’ è stato dopo il 1968, quando Londra ha lasciato la raffinazione dell’oro proveniente dal Sudafrica dell’apartheid, e si sono rivolti alle imprese svizzere, mentre le stesse banche aiutavano il governo a rifinanziarsi. In questo caso non eravamo accerchiati. Potrebbe capitare ancora?
Nella storia non si può mai escludere nulla. Quello che è certo è che Argor lavora solo con paesi democratici. Non ci interessa prendere scorciatoie, e sappiamo benissimo che certi errori o valutazioni sbagliate possono avere gravi conseguenze. È per questo che i nostri regolamenti interni sono perfino più meticolosi delle leggi internazionali.

Cosa fate per limitare l’impatto ambientale dell’estrazione?
Ad esempio escludiamo completamente fornitori che usano mercurio nell’estrazione. Minimizzare l’impatto è uno dei cardini delle nostre procedure di controllo e scelta dei fornitori. Ma lo sforzo continua anche qui, dove abbiamo fatto un grande investimento per la fusione senza prodotti chimici acidi e per l’alimentazione tramite pannelli solari, oltre che per incoraggiare la cultura della mobilità alternativa e scoraggiare l’uso dell’auto non condivisa.

Wild, veniamo alla questione dell’impiego. Avete 350 addetti, ma solo un terzo è residente in Ticino. Perché?
Per due motivi fondamentali. Primo, i lavori più faticosi, come quelli in fonderia, i ticinesi non vogliono più farli. Forse si è ancora fermi alla vecchia illusione per cui è meglio entrare in banca o in ferrovia. Secondo, le scuole ticinesi non producono profili tecnici adeguati per le specializzazioni più elevate – dal controlling alla due diligence – e anche la conoscenza delle altre due lingue nazionali è poco diffusa, specie quella del tedesco.

Insomma non andiamo bene né per il livello ‘alto’ né per quello ‘basso’?
Mi sembra una buona sintesi. Anche a livello di formazione universitaria, forse si dovrebbe fare attenzione a fare scelte più pragmatiche. Non abbiamo bisogno di centinaia di persone che hanno studiato comunicazione, perché in Ticino non ci sono abbastanza posti da offrirgli. Comunque confidiamo nell’impegno del Cantone a risolvere questo problema.

Ma almeno i manager non potreste trovarli in Svizzera interna?
Non vogliono venire, considerano il Ticino un ‘binario morto’ e non accettano stipendi del 20 percento più bassi che in Svizzera interna.

Avete provato a pagarli come oltre Gottardo? Oppure la ragione per la quale siete in Ticino è proprio legata al costo del lavoro minore, a parità di condizioni quadro?
Il costo del lavoro minore può essere un vantaggio, ma non è assolutamente la ragione per la quale siamo qui. Anche perché non è una grande idea pagare poco dipendenti che maneggiano tutti i giorni metalli preziosissimi, sia per la loro motivazione che per il rischio di abusi. E ripeto: noi i ticinesi e gli svizzeri li cerchiamo, nel management toccano l’80% del totale. Il problema è che per molte posizioni non li troviamo.

Quanti apprendisti formate per ovviare al problema della formazione?
Attualmente ne abbiamo tre nel commercio, uno nell’informatica e un paio di polimeccanici. Ogni persona è seguita individualmente da un maestro di tirocinio. Dato che il nostro è un business in cui le commesse variano molto da un giorno all’altro, formiamo persone polivalenti, capaci di spostarsi rapidamente in diversi settori della produzione. Fare un apprendistato da noi significa essere davvero esposti a un training completo, e non semplicemente essere sfruttati come manodopera a basso costo. Spesso poi incoraggiamo i nostri giovani a continuare la loro formazione, a uscire dal Ticino e acquisire nuove competenze, poi spesso li riassumiamo.

Perché non delocalizzate in Cina o altrove? Lì il lavoro costa pochissimo e i mercati sono enormi.
È vero, ormai la concorrenza per attrarre le aziende è globale. Forse, essere in Ticino non è nemmeno la soluzione più comoda. Ad ogni modo, abbiamo deciso di restare perché crediamo nel territorio con il quale abbiamo un legame storico. Naturalmente, è importante che vi siano sempre le condizioni affinché settore privato e pubblico possano dialogare nell’interesse reciproco della competitività territoriale.

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Dipendenti fedeli, ma niente Contratto collettivo

La Argor-Heraeus non ha sottoscritto un Contratto collettivo di lavoro (Ccl). Quando gli facciamo presente che detta così suona male, il Ceo Christoph Wild ribatte: «Al contrario, dovrebbe suonare molto bene: lo hanno scelto liberamente i nostri dipendenti, da noi chiamati a votare per prendere una decisione. Evidentemente trovano che il nostro mix di salari, ferie, cassa pensioni sia ben più vantaggioso di quanto previsto dal Ccl. E quando realizziamo utili ne redistribuiamo una parte in forma di bonus ai dipendenti».

Vincenzo Cicero, responsabile del settore industria del sindacato Unia, respinge l’idea che maggiori vantaggi escludano a priori il Ccl: «Nessuno impedisce a un’azienda sottoposta a Ccl di offrire migliori condizioni ai suoi dipendenti. In compenso, il Contratto non è modificabile unilateralmente come può esserlo un regolamento aziendale interno. Dunque a livello strutturale non è comunque possibile giudicare quest’ultimo ‘migliore’ del Ccl, che fornisce la garanzia di dover dialogare con la controparte dei lavoratori quando si intendono rivedere le fondamenta dell’accordo».

Al Ceo di Argor abbiamo anche chiesto cosa fanno per fidelizzare i loro impiegati. «Abbiamo dei collaboratori molto fedeli», spiega: «Quasi la metà di essi è con noi da oltre 10 anni. Ci impegniamo molto ad offrire condizioni di impiego favorevoli, promuovendo una cultura di rispetto e fiducia all’interno della quale è promossa la crescita personale. Un aspetto importante in questo senso è sicuramente dato dai percorsi individualizzati e dalla formazione che internamente o attraverso partner esterni offriamo ai nostri collaboratori. L’essere parte di un grande gruppo ci permette inoltre di offrire ai collaboratori esperienze all’estero; sicuramente un ulteriore fattore motivante». Quanto all’equilibrio vita-lavoro, «In azienda abbiamo profili piuttosto differenti: tecnici, economisti, operai, ingegneri, chimici e tanto altro. A seconda del profilo e della tipologia di lavoro, le esigenze di equilibrio vita-lavoro possono essere molto differenti. In generale», prosegue il Ceo, «cerchiamo di andare incontro alle esigenze dei singoli collaboratori cercando di essere flessibili in una logica di beneficio reciproco. Ad esempio, se i nostri processi lo consentono, sosteniamo il concetto di ‘Smart Working’; questo non da ultimo anche per evitare spostamenti eccessivi. Un altro esempio: consentiamo ai nostri giovani dipendenti, se lo desiderano, di tornare al lavoro part-time dopo il congedo di maternità».

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Dick Marty: ‘L’oro è una bomba a orologeria per l’immagine svizzera’

Dick Marty è fra i principali promotori dell’iniziativa per multinazionali responsabili, che intende sottomettere al diritto civile svizzero le imprese confederate anche per le attività delle filiali all’estero. L’ex magistrato, Consigliere di Stato in Ticino e agli Stati a Berna contesta la tesi secondo la quale si ribalterebbe sull’accusato l’onere della prova e si introdurrebbe uno svantaggio strategico per le imprese svizzere: «È il diritto svizzero delle obbligazioni che già prevede la stessa cosa a livello nazionale: se il mio cane morde qualcuno io devo rispondere del danno; spetta comunque alla vittima dimostrare il danno e la mia negligenza, e io potrò sempre cercare di dimostrare che è stata l’altra persona ad avvicinarsi troppo. Lo stesso vale per le imprese, con buona pace delle favole che mette in circolazione EconomieSuisse, e che naturalmente fanno comodo a chi non vuole preoccuparsi troppo delle sue filiere» spiega Marty. «Tanto più che in Svizzera le indennità comminate sono modeste e non è affatto immediato vincere cause di responsabilità civile: chi ritiene di aver subìto un danno deve agire autonomamente e anticipare tutte le spese, dato che spetta al presunto danneggiato svolgere le perizie e fornire prove. In aula finiranno i casi più eclatanti, ad esempio di disastro ambientale».

Quanto alla presunta perdita di competitività internazionale, Marty ribatte: «Negli Usa il diritto è molto più severo che altrove e di come lo diventerebbe in Svizzera con l’approvazione dell’iniziativa. Come mai allora le più grandi aziende continuano a operarvi, quando rischiano di pagare decine di milioni in multe per quanto fanno all’estero? Evidentemente contano più fattori come la centralità, la sicurezza del diritto e la burocrazia snella, a maggior ragione in Svizzera». L’ex procuratore mette in guardia anche contro i rischi per la reputazione svizzera: «La verità è che si vuole poter agire senza nessuna norma. Ma per la Svizzera l’oro è una bomba a orologeria: dato che circa il 70% dell’oro mondiale è raffinato qui, eventuali scandali coinvolgerebbero non solo le singole aziende, ma l’immagine stessa del nostro paese. Si sa che l’oro è uno dei principali canali per finanziare traffico d’armi e terrorismo, e che spesso la tracciabilità è resa difficile dal gioco di schermi degli intermediari. Ben venga quindi che si facciano già i dovuti controlli, ma a maggior ragione ben venga la possibilità di sanzionare chi invece commette abusi in sede civile qui in Svizzera».

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