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Centro di Bombinasco, due gli interessati a riaprirlo

La struttura, che ospitava persone con disabilità mentali, aveva dovuto chiudere lo scorso mese

(archivio Ti-Press)

Una nuova vita per il Centro Al Suu di Bombinasco? Così sembrerebbe. Dopo la chiusura avvenuta a fine giugno, c’è chi si è fatto avanti per gestire la struttura malcantonese, che fino al mese scorso accoglieva a Curio persone con disabilità di carattere mentale. Uno di questi, stando a nostre informazioni, è la Croce Rossa, che lo vorrebbe utilizzare per alloggiare i rifugiati minorenni non accompagnati che si trovano attualmente nel suo foyer di Paradiso. Un altro è un gruppo di ex dipendenti che, insieme all’associazione Prometheus, è interessato a riaprirlo a chi presenta un handicap mentale e a giovani con difficoltà di carattere psicosociale.

Le difficoltà della Fondazione Francesco cruciali per la chiusura

Tutta la proprietà appartiene tuttora alle suore dell’Opera serafica di Soletta, che però intendono vendere e non contribuire più all’attività del Centro. Ad aver gestito il Centro finora è l’Associazione vivere insieme (Avi), fondata nel 1990 da Elisabetta Steiger, che ha aperto il Centro Al Suu nel 1994. Dopo la sua morte, avvenuta nel 2017, fra Martino Dotta è diventato presidente del comitato Avi ed era stato siglato un accordo per un passaggio graduale del Centro alla Fondazione Francesco per l’aiuto sociale, di cui Dotta è direttore. La Fondazione, però, è stata confrontata con problemi finanziari dovuti alla pandemia, ai rincari, e alla gestione di altri progetti e per questo non è stato più possibile mantenere il progetto del Centro Al Suu, aveva riferito Dotta al portale tio.ch. La Fondazione ha così interrotto la collaborazione con l’Avi a fine dicembre scorso. Sono così venuti a mancare importanti sostegni alla struttura che, nell’ultimo periodo, “ha registrato maggiori difficoltà finanziarie: di fatto le rette non coprivano più i costi di gestione corrente”, ha indicato il governo cantonale in risposta a un’interrogazione. Una situazione che secondo alcuni si sarebbe potuta evitare, se fosse stato reso noto prima dalla Fondazione Francesco che c’erano delle difficoltà.

Un minimo di organico per garantire la manutenzione

Ora che il Centro è effettivamente chiuso, educatori e operatori sociosanitari non sono più impiegati, è stato però mantenuto un minimo dell’organico che si occupa della manutenzione della struttura, che si erge su un terreno di circa 20mila metri quadrati, dove c’è anche un parco da curare oltre a dover fare un minimo di pulizie dello stabile. Inoltre il lavoro di segretariato non è ancora del tutto concluso, vanno infatti liquidate le ultime pendenze, come per esempio fatture da incassare. A garantire tutto ciò continuerà a essere l’Avi, fino alla vendita. «Spero di cuore che si riesca a trovare una soluzione – ci dice il sindaco di Curio Gianni Nava –. Sia per quanto riguarda la struttura sia per quanto riguarda lo spirito dell’associazione, dunque di aiuto alle persone bisognose».

‘Si era creata una famiglia’

Una chiusura che ha lasciato con l’amaro in bocca in molti, tra cui i dipendenti della struttura (14 persone, a cui vanno aggiunti tre posti che riguardavano un programma occupazionale). «La notizia li ha chiaramente scossi, anche perché si era sviluppato un legame molto forte con gli ospiti. Si era creata una sorta di famiglia», ci spiega Giovanni Berardi, deputato in Gran Consiglio. Quest’ultimo è stato contattato da alcuni ex dipendenti, per aiutarli nella creazione di un progetto che desse nuova vita al Centro, visto anche il suo legame col territorio in quanto sindaco di Alto Malcantone. «Questo gruppo di persone ha preso contatto con l’Associazione Prometheus, che desidera creare un centro per giovani con difficoltà di carattere psicosociale. Il Ticino è notoriamente sottodotato riguardo a questo tipo di strutture».

I tempi sono stretti, si cercano finanziamenti

Attualmente il progetto è ancora in una fase embrionale, ma c’è già stato un incontro con la congregazione di suore, che desiderano vendere in fretta e concentrare le loro attività nel Canton Soletta. La loro volontà è comunque di lasciare la proprietà a un ente o a una fondazione che abbia uno scopo sociale di assistenza a giovani e persone con difficoltà. «Elaborare in poco tempo una proposta per l’acquisto non è facile. Sia dal lato dei fondi sia per elaborare il progetto sociale. Allo stadio attuale si è presentata una possibilità per avere a disposizione dei fondi per acquistare la struttura. Chiaramente la congregazione dovrà farà le sue ponderazioni in base alle altre proposte. Per noi sarebbe una grande soddisfazione poter continuare ciò che era stato portato avanti praticamente senza aiuti pubblici», indica Berardi. L’Associazione, come da volontà della fondatrice, non ha infatti mai richiesto aiuti cantonali e in Ticino è l’unico ente autorizzato a esercitare nonostante non sia riconosciuto per l’ottenimento di un sussidio, indica il governo cantonale, che precisa che questo fatto esclude dunque Al Suu dalla pianificazione cantonale.

«Non è facile creare e sostenere una realtà del genere, per questo abbiamo bisogno dell’aiuto di chiunque voglia contribuire sia a livello di idee sia a livello finanziario. Fatevi avanti!», incoraggia Berardi. A tal proposito, nelle prossime settimane verrà fatta una comunicazione pubblica che riguarda il progetto. Oltre a presentare quest’ultimo, si vuole «smuovere le coscienze non solo dei Comuni e del Cantone, ma anche della popolazione, per dare una svolta nuova a questa struttura che avrebbe una ragion d’essere nel quadro dell’assistenza ai giovani e ai disabili psichici».

Poco interesse da parte dei Comuni

A livello di Comuni, l’interesse sembra non esserci: «Ne ho parlato anche all’interno del comitato della Conferenza dei sindaci del Malcantone, ma non c’è stato un particolare riscontro. Bisogna poi considerare che c’è in ballo l’aggregazione tra Astano, Bedigliora, Miglieglia, Novaggio e, appunto, Curio, nel nuovo comune di Lema. Generalmente, in una situazione come questa, i primi anni sono di consolidamento e difficilmente ci si imbarca in nuovi progetti».

Vivere in un contesto comunitario

Cosa c’è dunque sul tavolo a livello organizzativo? Si pensa a una gestione combinata, spiega Berardi. Da una parte con la presa a carico di persone con disabilità mentali e dall’altra con l’accoglienza di giovani. Questo in modo da «creare un tipo di vita comunitaria che può avere dei risvolti positivi per entrambe le tipologie di ospiti». Fino a fine giugno, nella struttura erano presenti otto utenti con disabilità mentali, di cui cinque in età AVS. Alcuni di loro hanno trovato posto in una casa anziani, ma «alla luce di quello che era la loro vita comunitaria, questa nuova soluzione non è risultata ottimale. Il sistema attuale per la presa a carico di queste persone, non prevede una situazione intermedia tra quello che si può vivere in un laboratorio protetto e una struttura per anziani. Per questo motivo si vuole creare un modello dove persone disabili in età AVS possano continuare una loro vita comunitaria».

L’obiettivo dei nuovi promotori è di avere una struttura da utilizzare in maniera completa, e si ipotizza che ci sarebbe posto per una trentina di persone. Nell’ultimo periodo gli ospiti erano molti meno, ma questo numero limitato non è dovuto alla bassa richiesta, ma alla prospettiva di interventi di rinnovamento della struttura da parte della Fondazione Francesco, che però negli anni non si sono concretizzati. In ogni caso, alcuni degli spazi liberi venivano utilizzati come bed & breakfast, in cui venivano alloggiati principalmente persone disabili per soggiorni brevi, provenienti da altri Cantoni.

Costituire due entità

Sul piano amministrativo si pensa alla creazione di due entità. Da una parte una fondazione che diventi proprietaria della struttura: «Questo darebbe anche una garanzia ai venditori che avrebbero a che fare con un’entità vincolata nei suoi obiettivi e nei suoi scopi», spiega Berardi. Dall’altra parte, per la gestione delle attività potrebbe invece esserci un’associazione o un’altra fondazione. «Tra le due entità ci sarebbero chiaramente dei rapporti. Inoltre nel progetto di gestione dovrebbe scaturire un ristorno per l’utilizzo dell’intera infrastruttura, che permetta di far fronte ai costi di gestione, ai costi di manutenzione ed eventualmente anche ad ammortizzare degli eventuali investimenti». Due entità distinte permetterebbero quindi di «dare solidità al progetto. Se l’attività di gestione dovesse avere difficoltà, rischierebbe di far colare a picco tutto il progetto. In questo modo la struttura rimarrebbe aperta mentre si ripensa il modello di gestione». In ogni caso l’Avi verrà probabilmente sciolta una volta che la struttura sarà acquistata. Indipendentemente dalla forma giuridica che si sceglierà, per la nuova gestione ci sono dei requisiti da rispettare per sottostare all’autorizzazione cantonale, ricorda Berardi.

Oltre ai criteri per la gestione, non bisogna dimenticarsi di alcuni aspetti legislativi. «La struttura si trova su un sedime di cui solo una piccola parte, quella dove c’è la vecchia villa, è edificabile. Il resto, dove si trovano le strutture principali, è fuori zona edificabile, spiega Berardi. Dunque «la Legge sul diritto fondiario rurale e la Legge sulla pianificazione del territorio, potrebbero essere un ostacolo. In particolare per chi desidera cambiare destinazione agli edifici, che attualmente sono adibiti a progetti sociali, o intervenire su di essi».

L’interrogazione

Questione approdata anche in governo

La prospettata chiusura aveva fatto discutere anche a livello cantonale alcuni mesi fa. I granconsiglieri Raoul Ghisletta e Giulia Petralli avevano infatti inoltrato ad aprile un’interrogazione al Consiglio di Stato, alla quale quest’ultimo ha risposto a maggio. Era stato chiesto quale strategia avrebbe potuto mettere in atto l’Ufficio invalidi per evitare la chiusura della struttura. Al riguardo, il CdS ha ricordato che l’Associazione vivere insieme aveva un’autorizzazione d’esercizio, ma non veniva finanziata dal Cantone. “Un sostegno finanziario richiede una serie di condizioni ai sensi della Legge sull’integrazione sociale e professionale degli invalidi (Lispi) e del relativo Regolamento (Rlispi), che la struttura non possiede”. Viene inoltre indicato che l’Avi non aveva mai intrapreso i passi necessari per fare richiesta di questo tipo di sostegno.

Al CdS è stato inoltre chiesto se fosse possibile favorire la ripresa della struttura da parte di un altro ente sociale riconosciuto. Il governo ha indicato che “si sono vagliate diverse possibilità, compresa quella di accorpare la struttura a un altro ente. Eventualità tuttavia subito abbandonata per la mancanza delle condizioni di base” indicate nella risposta alla prima domanda. Riguardo alla “richiesta e bisogni emergenti in merito alla presa a carico di persone che necessitano un ambito protetto”, il CdS sostiene che “la chiusura della struttura non mette in difficoltà il settore e nemmeno la sua capacità di risposta alle richieste del territorio, dal momento che queste sono già assorbite e/o inserite nella prossima Pianificazione 2023-2026, in collaborazione con gli enti Lispi autorizzati e finanziati già attivi in Ticino”.

Il governo era stato pure interrogato riguardo al ricollocamento degli invalidi e del personale nel caso in cui il centro venisse effettivamente chiuso. Circa gli ospiti, il CdS ha indicato che l’Ufficio invalidi si occupa di garantire la presa a carico di ognuno di essi, questo fino a quando “non sarà identificato e concretizzato un collocamento adeguato alle esigenze e ai desideri” degli ormai ex utenti del centro. Riguardo al personale, “l’Ufficio invalidi ha favorito il contatto fra la struttura e l’Associazione ticinese delle istituzioni sociali (Atis), per rendere noti i profili delle 14 persone a cui è stata comunicata la disdetta per fine giugno”.

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