Luganese

Manno, prosciolto il datore di lavoro: ‘Colpa della vittima’

L’uomo era stato accusato di omicidio colposo per non aver garantito le misure di sicurezza necessarie, causando così la morte di un suo operaio nel 2017

La sentenza espressa oggi
(Ti-Press)
19 dicembre 2022
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È stato prosciolto dall’imputazione di omicidio colposo il datore di lavoro che ha visto un suo dipendente perdere la vita nel tragico episodio di cronaca avvenuto nell’agosto del 2017 in un cantiere a Manno. L’operaio di Dongo, in provincia di Como, ricordiamo, era caduto da 6,5 metri di altezza mentre lavorava in un cantiere in via Violino. L’uomo, cadendo, ha sfondato la copertura di plastica ondulata del tetto finendo al suolo ed è morto la sera stessa dell’accaduto. Il proprietario della ditta, rappresentato dall’avvocato Rossano Guggiari, si è dichiarato sin dall’inizio non responsabile. Motivo per il quale il suo legale ne aveva chiesto l’assoluzione dai capi d’accusa.

Bernasconi Matti: ‘La caduta è da ricondurre alla negligenza della vittima’

Per la drammatica sorte toccata al lavoratore, un 58enne cittadino italiano dipendente da circa dieci anni della ditta, il Ministero pubblico, rappresentato dalla procuratrice pubblica Margherita Lanzillo, aveva formulato l’accusa di omicidio colposo nei confronti del datore di lavoro. Accuse che sono state respinte dalla presidente della Corte della Pretura penale di Bellinzona Elettra Orsetta Bernasconi Matti: «L’omessa istruzione obbligatoria per i lavori in quota e l’omessa messa in sicurezza delle vie di transito e di accesso che conducevano al tetto non sono in nesso di causalità né naturali né adeguate con la caduta mortale». Il tragitto, «come confermato dai periti, si è dimostrato essere a prova di rottura, gli altri operai l’hanno percorso indenni e indenne l’ha percorso anche la vittima fino al superamento della linea vita (l’insieme di ancoraggi posti in quota sulle coperture al quale si agganciano gli operatori tramite imbragature e relativi cordini, ndr). Era indispensabile indossare l’imbragatura ed essere allacciato alla linea vita, cosa che la vittima purtroppo non ha fatto per una sua inspiegabile scelta». La caduta – ha concluso la giudice – «può essere unicamente riconosciuta al comportamento della vittima».

Probabile il ricorso in Appello

La pp Lanzillo, ha ritenuto invece che il posto di lavoro non era a norma di legge. Lo stato del tetto, secondo la pubblica accusa, era vissuto, scivoloso, danneggiato dalle intemperie dei giorni precedenti e non resistente alla rottura. Inoltre, non disponeva di strumenti di sicurezza o reti contenitive adatte, come confermato dalla Suva e da un perito intervenuti il giorno stesso dell’accaduto. Ma anche che il datore di lavoro non aveva predisposto per la vittima il necessario corso di formazione anti caduta per i lavori in quota. Lanzillo aveva chiesto una pena pecuniaria di 90 aliquote sospesa condizionalmente per due anni e aveva già annunciato la propria intenzione di andare in Appello qualora la richiesta non fosse stata accolta. Intenzione che con tutta probabilità verrà concretizzata.

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