Luganese

Stop ai pregiudizi: 'Coi videogiochi s'impara'

Dalla formazione agli sport (milionari): i videogiochi oggi sono 'seri'. Sulla scia dell'Autunno digitale, intervista al ricercatore Supsi Masiar Babazadeh

Un videogioco creato con la piattaforma Scratch durante i MoMe Labs del 2019
14 ottobre 2020
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Imparare giocando. Imparare facendo esperienze in prima persona. Concetti non nuovi e già da tempo fatti propri dal sistema educativo ticinese, ma che negli ultimi anni hanno subìto una trasformazione in concomitanza con la digitalizzazione della nostra società. Lo strumento per imparare sempre più spesso sono infatti i videogiochi. Demonizzati o quantomeno guardati con sospetto ancora fino a un decennio fa, sono ormai parte della quotidianità di tutti o quasi i giovani. E proprio per la familiarità coi videogiochi dei 'Zoomers' – la Generazione Z, i giovanissimi nati fra la fine degli anni 1990 e l'inizio dei 2010 –, chi si occupa di formazione guarda con sempre maggiore interesse scientifico ai cosiddetti 'serious games'. In occasione dell'Autunno digitale di Lugano, ne abbiamo parlato con Masiar Babazadeh, docente e ricercatore al Dipartimento formazione e apprendimento (Dfa) e al Dipartimento tecnologie innovative (Dti) della Supsi.

Partiamo dalle basi: cosa s'intende per 'serious games'?

Sono dei 'giochi seri' che non hanno soltanto lo scopo dell'intrattenimento, ma anche obiettivi educativi. Seguono diversi modelli pedagogici, ultimamente in particolar modo l'apprendimento esperienziale. Il videogioco permette di fare un'esperienza, in un ambiente protetto, dove se si sbaglia non succede nulla. Poi c'è tempo di testare e fare in modo giusto. È un apprendimento attivo, diverso rispetto a quello passivo delle lezioni frontali. Al momento si utilizzano prevalentemente nella formazione aziendale: diverse ditte propongono delle simulazioni sotto forma di giochi. Poi ci sono serious games che non sono nati in quanto tali, ad esempio Assassin's creed (popolarissimo fra i ragazzi, ndr). È un gioco di fantasia, ma contiene molti elementi storici accurati, diventando in tal modo formativo.

Vengono utilizzati anche in Ticino?

In Ticino non hanno ancora preso piede. Magari c'è qualche azienda che ne fa uso, però non c'è granché per ora. Nelle scuole non si parla ancora di serious games, ma al Dfa da alcuni anni si sono sviluppate attività formative volte a integrare le tecnologie nell’insegnamento. Ad esempio, sia gli studenti del Bachelor in Insegnamento per il livello prescolastico ed elementare che quelli del Master in insegnamento per il livello secondario I (scuole medie, ndr) hanno la possibilità tramite una breve formazione specifica – chiamata 'settimana media' – di imparare a utilizzare la piattaforma 'Scratch' a fini pedagogici.

Che cos'è Scratch?

È una piattaforma di programmazione creata ad hoc per i più piccoli dal Massachusetts Institute of Technology (Stati Uniti). È estremamente semplice proprio perché rivolto a bambini e ragazzi, con l'obiettivo di sviluppare storie interattive o giochi semplici.  Non è propriamente un serious game, dove s'impara giocando, ma diciamo che si impara mentre si crea un gioco.

Ci può fare un esempio?

Al Festival del film di Locarno del 2019 il Laboratorio tecnologie innovative del Dfa di cui faccio parte ha animato i MoMe Labs, un laboratorio rivolto ai ragazzi per imparare a sviluppare dei semplici videogiochi utilizzando appunto Scratch. Uno in particolare era molto interessante, incentrato sulla sostenibilità: hanno creato un personaggio somigliante al presidente degli Stati Uniti Donald Trump che lascia in giro spazzatura. Per non perdere, il giocatore deve raccogliere i rifiuti prima che diventino troppi. Il videogioco ha in questo caso una triplice funzione: quella ludica, l'ampliamento delle competenze informatiche e allo stesso tempo lo sviluppo della sensibilità ambientale. La cosa che più mi è piaciuta è che l'abbiano pensato da soli.

Si tratta quindi di attività che sviluppano diverse competenze.

Proprio così. Favoriscono l'interdisciplinarità: a parte le competenze informatiche e relazionali, vengono sviluppate quelle linguistiche per scrivere la storia, poi quelle grafiche legate all'educazione visiva. A dipendenza del tema scelto ci possono essere anche altre materie: matematica, scienze, storia, musica. Io dico sempre che il videogioco è un'arte composta da altre arti. Inoltre, si tratta di strumenti formativi, in quanto permettono di veicolare messaggi forti trattando tematiche attuali: dalla guerra alle malattie, dalla psiche umana all'introspettività.

I docenti in formazione accolgono questa nuova forma d'insegnamento?

Bene. Molti ormai sono dei Millenials (la generazione di giovani nati fra l'inizio degli anni 1980 e la fine dei 1990, ndr). Magari hanno già giocato anche loro ai videogiochi e se non l'hanno fatto ne sono incuriositi. Alcuni partono scoraggiati: pensano di non essere all'altezza, però poi ne comprendono le potenzialità, si appassionano e alla fine sono quelli che ti sorprendono coi lavori più interessanti. Ad esempio sta partendo una tesi di diploma del Master che citavo prima sviluppata da due studenti, uno futuro docente di matematica e l'altro di scienze: si propone lo sviluppo di un’attività didattica in cui il primo li segue nella progettazione su Scratch e il secondo trasmette le conoscenze, gli elementi relativi alla materia. In questo caso Scratch diventa uno strumento in cui lo studente può mettere in gioco le conoscenze acquisite.

Perché è importante che i docenti sviluppino competenze in quest'ambito?

Oggi, rispetto a solo una decina d'anni fa, i videogiochi sono molto più popolari. Se una volta era solo una nicchia di 'nerd' a parlarne, oggi è l'intera classe. È importante che i docenti imparino a capire di cosa si tratta e, perché no, portare in classe degli esempi legati ai videogiochi. È giusto quindi che diventino parte del bagaglio culturale del docente, sia perché fanno parte della realtà degli allievi, ma anche perché si è fatta luce su altri benefici: ci sono numerosi studi scientifici, molti pubblicati recentemente, che dimostrano ad esempio che migliorano i riflessi e le capacità di risoluzione dei problemi. Inoltre entrano in gioco la questione dell'ascolto attivo, la comunicazione, il team building, il lavoro di squadra.

E i giovanissimi, che sono nativi digitali, hanno necessità di essere educati?

Oggigiorno i ragazzi delle elementari e delle medie sanno utilizzare benissimo uno smartphone o un tablet, ma coi computer hanno difficoltà. Molti non hanno idea di come si accende. E poi, internet: non sanno come arriva nei telefoni, pensano che sia qualcosa nell'aria, non hanno idea di tutta l'infrastruttura che include cavi sottomarini che collegano i continenti, ad esempio. Sono strumenti che utilizzano tutti i giorni senza sapere cosa ci sia dietro. Quindi l'educazione è importante, una vera e propria formazione digitale. Poi ci saranno sempre dei ragazzi che, faccio un esempio, nella fruizione dei videogiochi si sposteranno oltre alla propria fascia d'età. Ma questo non è un fenomeno nuovo: oggi succede coi videogiochi, una volta capitava coi film o coi libri che proponevano contenuti più espliciti.

Queste le prospettive al Dfa. Al Dti invece?

Al Dti abbiamo fatto partire proprio quest'anno il corso di Game development, quindi lo sviluppo di giochi. È un corso opzionale del Bachelor di Ingegneria informatica del terzo anno. Si studia l'ambiente di sviluppo Unity e al termine si realizza un lavoro di gruppo: lo sviluppo di un videogioco. Inoltre, nell'ambito dello stesso Bachelor vengono anche erogati corsi di grafica o realtà virtuale.

Veniamo al capitolo degli eSports: perché vengono definiti così e non videogiochi?

Perché si tratta di sport competitivi elettronici. Competitivi, perché non c'è un fattore di fortuna, come ad esempio alle slot machines, è più una questione di competenze: sei bravo e quindi vinci. Negli ultimi anni gli eSports hanno fatto molto rumore, anche i tornei hanno sempre maggior seguito. Ci sono molti sponsor e quindi molti soldi in palio nei campionati. Negli Stati Uniti alcuni ragazzi sono diventati molto ricchi vincendo tornei di Fortnite. Il concetto di eSports esiste già da molti anni, il primo torneo di 'Spacewar!' risale agli anni Settanta, ma ha avuto un boom negli ultimi anni.

Ci può fare alcuni esempi di eSports?

Il già citato Fortnite è molto conosciuto. È un multiplayer, ma in realtà si gioca da soli contro altri e sostanzialmente è un 'battle royale': l'ultimo giocatore che rimane in vita vince. Poi c'è League of Legends: si è cinque contro cinque, si comunica attraverso cuffie e microfono cercando di creare delle strategie per vincere. È un gioco di squadra e vanta tornei molto grandi e seguiti. Uno al quale sono molto legato è Smash Bros (erede della saga di Super Mario, ndr). Oltre a essere il presidente dell'associazione ticinese, il primo torneno al quale ho partecipato nel 2004 in Francia era proprio di Smash Bros. Inoltre, nel 2018 e nel 2019 il Dti ha ospitato, in collaborazione con Ated–Ict Ticino, una tappa della Swiss Made Game League, competizione nazionale di eGames promossa dalla Federazione Svizzera di sport elettronici.

È corretto che sia gli eSports sia i videogiochi sviluppano prevalentemente competenze intellettuali e sociali, non fisiche?

Sì, ma c'è anche una dimensione fisica in merito ad esempio alla precisione dei movimenti. Poi ci sono quelli mirati per l'esercizio fisico come la raccolta Wii Sports. Se penso alla realtà virtuale c'è Beat Saber: in cui grazie al caschetto il giocatore si dota di una spada virtuale che serve a eliminare dei blocchetti, a ritmo di musica. Però sì, a prevalere sono altri fattori, come le facoltà decisionali ad esempio, la strategia, il pensiero computazionale. Quest'ultima è una tipologia di pensiero atta al problem solving: quando si presenta un problema, per affrontarlo bisogna suddividerlo in problemi più piccoli, creare un algoritmo per cercare dei bug e quindi risolverli. Alla fine si crea una nuova competenza che può essere riutilizzata quando si presentano problematiche simili. Abbiamo anche un progetto di ricerca che si occupa di studiare il pensiero computazionale. E dal profilo sociale, è notizia dello scorso giugno che negli Stati Uniti alcuni medici hanno prescritto EndeavorRx, un videogioco creato apposta per ragazzi affetti da deficit d'attenzione, che si può scaricare su prescrizione medica. Ma in Ticino non siamo ancora a questo punto (ride, ndr).

A quale punto siamo invece?

Essendo una branca in pieno, ma recente, sviluppo c'è molto da fare. Certo, per ora in Ticino c'è poco: poche communità di videogiocatori e pochi eventiSono in contatto con un professore della State University di New York a Potsdam, che sta lavorando molto sul codice di condotta degli eSports: comportamenti adeguati e tossici, cosa fare per garantire un ambiente sereno per tutti. E poi il gender gap: perché ci sono tanti ragazzi e poche ragazze? In generale la sfida ora è aumentare la consapevolezza sugli eSports.

I videogiochi hanno un alto potenziale e numerosi aspetti positivi, quindi. In Ticino cosa si potrebbe fare per sviluppare questa consapevolezza?

Ho un sogno nel cassetto. Abbiamo atenei in America o in Europa che hanno la loro squadra di eSports nei vari giochi. Non sarebbe male creare anche da noi un club di eSports che possa competere contro altre università svizzere. Ma siamo solo all'inizio di questo percorso. 

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