Luganese

Spacciava: prima in carcere e poi l'espulsione

Già in prigione per reati specifici, l'uomo dopo la scarcerazione ha ripreso l'attività di spacciatore. Tornerà dietro le sbarre per 24 mesi, poi l'allontanamento

30 novembre 2018
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«Ha dimostrato una stupefacente determinazione». Sulla sentenza – ventiquattro mesi da espiare e l’espulsione per cinque anni – emessa dalla Corte delle Assise criminali ha pesato in particolar modo il fatto che l’imputato, già imprigionato per lo stesso reato, dopo la scarcerazione abbia ripreso l’attività di spacciatore. Il processo svoltosi ieri a Lugano ha riunito in realtà due procedimenti, con in comune ipotesi di reato e imputato, riuniti pertanto in uno. Si tratta di un dominicano 42enne residente nel Luganese, che a più riprese è stato accusato di spacciare cocaina: quasi mezzo chilo tra l’estate del 2015 e la primavera di quest’anno. Finito dietro le sbarre per circa un mese e mezzo già nel 2016, «ha tradito la fiducia accordatagli con la scarcerazione» ha sottolineato la presidente Rosa Item. Dall’anno seguente la ricaduta infatti. La tesi della difesa, rappresentata da David Simoni, si è focalizzata su alcuni principi solo in piccola parte accolti. In primis l’«in dubio pro reo» (ossia la fiducia da accordare all’imputato in casi dubbi) basato sui pochi indizi e sulle dichiarazioni degli acquirenti, giudicate «contraddittorie e poco credibili». Il 42enne ha sostenuto inoltre di aver venduto quantitativi molto inferiori rispetto a quanto riportato nell’atto d’accusa – la Corte ha accertato per finire poco più di 400 grammi – e di averlo fatto perché necessitava di favori da parte dei consumatori. Sulle spalle del condannato pesa infatti una difficile situazione debitoria. «Altro che ‘in dubio pro reo’ – la replica di Pamela Pedretti –, è un abile spacciatore che ricorreva a espedienti, come lasciare il cellulare a casa per non farsi rintracciare (proprio grazie alle intercettazioni sono stati arrestati diversi suoi connazionali nell’ambito di un’inchiesta per droga circa un anno fa, ndr)», ha detto la pp chiedendo trentadue mesi e l’espulsione per otto anni. Quest’ultima, per casi come questo, è obbligatoria a patto che l’imputato non abbia legami particolarmente forti con il territorio. Sebbene in Ticino vivano la madre – dalla quale ha pure trascorso un breve periodo in clandestinità visto che il permesso gli era scaduto – e i fratelli dell’uomo, la Corte non ha accordato l’eccezione limitando tuttavia l’espulsione al minimo di legge. Accolta fra le attenuanti invece la parziale violazione del principio di celerità. «Dopo la scarcerazione nel 2016 – ha ricordato Simoni –, per due anni non vi sono stati atti istruttori».

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