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Duecento volte Luca Cereda in biancoblù

Alla sua quarta stagione alla transenna dell'Ambrì Piotta, il tecnico di Sementina sbobina il film della sua avventura alla Valascia

Alla sua quarta stagione 'piena' alla transenna biancoblù (Ti-Press)

Alla sua quarta stagione alla transenna dell'Ambrì Piotta, il tecnico di Sementina sbobina il film della sua avventura alla Valascia

25 gennaio 2021
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Solo in tre hanno fatto meglio di lui. Luca Cereda, con le sue duecento presenze in qualità di head coach della prima squadra dell'Ambrì Piotta - traguardo tagliato domenica contro i Bienne - è il quarto allenatore per numero di partite di campionato alla guida dei biancoblù. A precederlo, in questa speciale classifica, come recitano i precisi dati statistici di Brenno Canevascini, sono Larry Huras (231 match), Jiri Kren (278) e l'attuale tecnico del Lugano Serge Pelletier (296). Cosa significa essere il quarto allenatore della storia del club per numero di partite? «Kren, al di là di tutto resta un mito, un personaggio unico, che ha fatto la storia dell'Ambrì - racconta Luca Cereda -. Perché quella cifra l'ha raggiunta in un'epoca in cui di partite non se ne giocavano così tante come oggi. Non è da tutti riuscire a fare una carriera così nella medesima squadra: la durata media di un allenatore è relativamente breve... Il fatto di essere arrivato alla quarta stagione è sicuramente qualcosa di bello, per me ma anche per tutto lo staff che lavora con me: ribadendo la fiducia all'allenatore si ribadisce anche quella di chi sta al suo fianco. Siamo al quarto anno di lavoro con questo gruppo, e personalmente ancora oggi per me andare al lavoro è prima di tutto un piacere, come il primo giorno. Del resto io e Paolo Duca passiamo quasi più tempo assieme che con le rispettive famiglie».

Il 'prologo' del 2008

Quella attuale, per il tecnico di Sementina è appunto la quarta stagione 'piena' alla transenna biancoblù. Ma la sua carriera di allenatore dell'Ambrì Piotta annovera pure un prologo, quando nel dicembre del 2008, allora 26enne venne promosso da assistente ad allenatore a interim della prima squadra in un trittico di partite in sostituzione di John Harrington, rientrato negli Stati Uniti per motivi familiari (e poi congedato una settimana dopo il suo ritorno in Ticino; a subentrargli fu Rostislav Cada). La parentesi durò dal 2 all'8 dicembre, e andò agli archivi con tre sconfitte: a Berna (9-2), a Rapperswil (6-4) e, alla Valascia, contro il Ginevra Servette (0-3). «Di quelle tre partite ricordo in particolare la prima, a Berna. Quelli sono stati tra i sessanta minuti più lunghi della mia carriera di allenatore. Ricordo che era una partita interminabile, iniziata male, e finita anche peggio... Dopo pochi minuti eravamo già sotto di tre reti e per questo avevo chiesto il timeout (al 13'40", ndr) per cercare di cambiare il corso degli eventi, ma non è che poi andò molto meglio, anzi... I restanti minuti si sono dilatati all'infinito». Con che sentimenti prendesti in mano la squadra allora? «Successe tutto in modo quasi rocambolesco. Harrington dovette rientrare in fretta e furia a casa, praticamente all'improvviso, lasciandoci con la 'patata bollente'. Ricordo di aver provato un po' di emozione, ma anche tanta curiosità. Fino all'anno prima avevo allenato i Mini, divertendomi anche parecchio, e ritrovarmi quasi senza preavviso alla testa di una squadra di professionisti, seppure per pochi giorni, era tutta un'altra cosa. Da un giorno all'altro mi sono praticamente trovato confrontato con due mondi completamente diversi: dal lavoro con i 14-16enni, ancora sognatori, a quello degli adulti, di gran lunga più realista e concreto». Una carriera fulminante dunque...

Stagione 2017/18, l'inizio dell''era Cereda'

Quello di dodici anni fa è però appunto stato solo il prologo di una carriera sbocciata in tutto e per tutto all'alba della stagione 2017/18. E iniziata col botto, visto che la nuova 'era Cereda' si è aperta con il derby a Lugano, vinto dall'Ambrì Piotta (3-4), giocato, ironia della sorte, all'indomani del suo 36esimo compleanno. «La ricordo bene quella serata. Anche perché la notte precedente non ero quasi riuscito a chiudere occhio, per la tensione di quello che a tutti gli effetti per me rappresentava il vero inizio della mia avventura come allenatore dell'Ambrì. Già appunto il giorno prima la testa era tutta rivolta al derby; sentivo l'emozione salire». Come li hai vissuti i mesi precedenti il tuo esordio ufficiale? «La marcia di avvicinamento è stata particolarmente intensa e carica di emozioni. Segnati anche dal dolore per la perdita di mia madre. Quando mi si è presentata l'opportunità di prendere in mano le redini della squadra, una delle prime cose che mi chiese Paolo Duca fu: "Ti senti pronto per farlo?". Gli dissi che io nella mia testa avevo ben nitida l'immagine e l'idea di quello che mi avrebbe atteso e cosa avrei dovuto fare, ma che non sapevo se sarei stato in grado di trasmetterla al gruppo sul ghiaccio; in fondo non l'avevo mai fatto con dei professionisti. Ecco, quando ci siamo presentati a Lugano per la prima partita del campionato c'era anche un po' di curiosità per vedere a che punto eravamo rispetto alle altre squadre, anche perché i riscontri delle amichevoli estive non rappresentano un grande metro di valutazione».

Tra passato remoto, prossimo e presente

Come è cambiato il Luca Cereda di oggi rispetto a quello di 12 anni fa, rispettivamente tre anni fa? «Sinceramente non so se sono cambiato tanto in questi anni: mi sento più o meno lo stesso di prima. Sono una persona piuttosto introversa, a cui non piace tanto il caos e ama la tranquillità, l'intimità della casa. Sicuramente come allenatore, invece, sì, sono cambiato; all'inizio ero ancora più impaziente di adesso: la pazienza non è mai stata la mia forza: quando mi metto in testa un'idea, di solito tendo a volerla concretizzare il più velocemente possibile. Questo resta ancora oggi un mio difetto, ma ritengo di aver fatto dei progressi negli anni».

‘Il compito di un allenatore è prima di tutto quello di aiutare i giocatori a crescere’

Ci sono successi o risultati che ricordi con più piacere? «Sono diverse le partite che ricordo con piacere. Come una rocambolesca vittoria sul Davos, dopo esserci ritrovati in ritardo di tre reti (0-3 al 7'19", la sera del 27 ottobre 2017); finì 7-5. Fra gli altri bei ricordi c'è anche un derby vinto 6-4 dopo essere stati sul parziale di 1-3 (19 febbraio 2019), oppure, sempre quell'anno, la vittoria in gara 4 dei quarti di finale dei playoff col Bienne. Partite a cui se ci ripenso ancora oggi mi viene la pelle d'oca». E di delusioni? Ce n'è una che ti ha fatto male più di altre? «In pista forse no: bene o male anche le battute d'arresto fanno parte del gioco. Le delusioni maggiori le hai quando non riesci a portare un giocatore al suo massimo, per un motivo o per l'altro: quelle sono le sconfitte che fanno più male, il boccone più amaro da digerire. Perché prima di ogni altra cosa il compito di un allenatore è quello di aiutare i giocatori a crescere».

C'è stato qualcuno che è stato più difficile di altri da allenare. O più facile? «Più che di giocatori 'tosti' parlerei di giocatori particolari, magari con una personalità più marcata di altri. D'altro canto ho sempre cercato e apprezzato il dialogo con tutti: preferisco che tutti si sentano liberi di esternare i propri risentimenti. Perché altrimenti è impossibile trovare un punto d'intesa che soddisfi entrambe le parti. In positivo, di esempi, ce ne sono invece parecchi, anche di giocatori che ancora oggi fanno parte del mio gruppo. Quando riesci a portare ai massimi livelli un giocatore su cui magari altri non avrebbero scommesso non puoi che provare una soddisfazione personale».

‘Il rimpianto più grande? Forse quello di non essere riusciti a fare un ulteriore passo avanti alla Spengler. È stata una settimana magica, ma finita in modo brusco’

Ci sono rimpianti in queste quattro stagioni in biancoblù? «Forse quello sportivo più grande è il fatto di non essere riusciti a fare un ulteriore passo avanti alla Coppa Spengler: a Davos avevamo vissuto una settimana magica, ma poi il sipario è calato in modo troppo brusco in quella semifinale persa all'overtime. Quel finale ha lasciato una certa sensazione di incompiuto: ci è mancato l'ultimo passo».

Cosa significa per te l'Ambrì? «Per me l'Ambrì rappresenta un po' un ideale di vita. Un club che per varie ragioni si trova confrontato con tante difficoltà, ma nonostante ciò non molla, e continua a combattere. Questi sono valori che mi hanno inculcato fin da bambino e che ho cercato di fare miei e trasmettere anche ai miei figli. Non bisogna mollare in mezzo alle difficoltà, ma rimboccarsi le maniche».

Fra i tuoi colleghi allenatori, ce n'è uno che ti ispira particolarmente? «I due che reputo siano stati i migliori allenatori degli ultimi anni in Svizzera sono indubbiamente Arno del Curto e Chris McSorley. Ognuno col suo carattere e con la sua personalità, ma entrambi accomunati per principi di gioco. Li ammiro anche per la filosofia di gioco che hanno portato in Svizzera. Arno e Chris li ho rivisti entrambi la scorsa estate a una cena».

Verso il nuovo stadio

Da settembre l'Ambrì avrà una nuova casa: come stai vivendo l'ultima stagione dei biancoblù sotto le volte della Valascia? «La sto vivendo con tanti sentimenti misti. Da un lato un po' di tristezza, perché in questo stadio ho vissuto tanti momenti indelebili, emozioni uniche. Prima come tifoso, poi come giocatore e ora come allenatore. Ma d'altro canto c'è la consapevolezza che dall'altra parte ci attende uno stadio ben curato in ogni dettaglio, che ci permetterà di lavorare nelle migliori condizioni possibili. Varcare le porte dello spogliatoio di quell'impianto sarà come iniziare un'altra bella avventura».