Elezioni USA 2016

L'analisi di Tonello: 'Trump? Non sa neppure da che parte cominciare'

(Kin Cheung)
9 novembre 2016
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È molto probabile che Donald Trump “non sappia neppure da che parte cominciare” e che dunque si concentrerà su iniziative di carattere simbolico e spettacolari, dando addosso, ad esempio, a qualche gruppo di immigrati clandestini. Nel frattempo il partito repubblicano si adopererà per circondarlo di uno staff che lo guidi nelle decisioni da prendere in qualità di presidente... Fabrizio Tonello, docente all’Università di Padova di American Political System, osserva da anni le vicende politiche e sociali degli States, e anche questa volta era là a seguire la fase finale di una folle campagna elettorale. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente al tredicesimo piano di un palazzo affacciato sull’Hudson.

Professore, secondo il noto analista Fareed Zakharia, la lunga rincorsa della destra bianca a strappare la presidenza dalle mani di Obama (considerato un usurpatore dallo stesso Trump) è conclusa. Quanto ha contato il risentimento razziale nel successo di Trump?
Negli Stati Uniti continua ad esistere un problema socioculturale che ha radici nelle origini stesse del Paese, fondato sul lavoro di quattro milioni di schiavi che lavoravano in piantagioni di cotone, il cui ricavato rappresentava la componente maggiore della ricchezza nazionale all’epoca dell’indipendenza e della prima Costituzione.
Questo spiega perché Obama non è mai stato accettato da una vasta parte della popolazione bianca, nonostante che si fosse presentato come candidato “post-razziale”.
La reazione che si è scatenata è stata molto violenta e ha preso forma dapprima con i Tea Party che hanno ottenuto successi elettorali molto consistenti già nelle elezioni di medio termine del 2010, limitando drasticamente le possibilità di governo di Obama. Tanto che nel 2012 la sua rielezione è avvenuta in una situazione di paralisi legislativa, dovuta al boicottaggio programmatico dei repubblicani nei suoi confronti.

Lo spostamento verso l’estrema destra del partito repubblicano non è dunque un fenomeno recente. Possiamo considerare l’elezione di Trump, il coronamento di questo corso politico?
Trump è il frutto di vent’anni di radicale spostamento a destra del partito repubblicano, in una forma violenta, xenofoba. Il tema dell’immigrazione, il più spendibile, non l’ha inventato lui. Né è una esclusiva di Trump la demonizzazione dell’avversario: non viene da lui l’idea che i Clinton rappresentino l’establishment corrotto e criminale. È stato il partito a montare la vicenda delle email di Hillary Clinton, Trump l’ha semmai impugnata e sfruttata.
Ciò che è avvenuto è la progressiva polarizzazione di un partito che doveva trovare temi che gli assicurassero il legame con i cittadini socialmente conservatori, religiosi, isolati e soprattutto i dimenticati della globalizzazione. In queste elezioni non è avvenuto niente di così strano: si sono semplicemente consolidate tendenze già note e in atto da tempo.

Il partito repubblicano è comunque spaccato. I dirigenti si sono esposti contro Trump. Basterà il collante del potere a rimetterlo insieme?
Esposti fino a un certo punto, se pensiamo a come se l’è cavata lo speaker della camera Paul Ryan quando ha detto che disapprovava il modo in cui Trump parlava delle donne, ma che comunque lui si occupava d’altro, della campagna dei colleghi congressmen.
Un gioco delle parti, in verità, poiché i repubblicani in Congresso avevano bisogno di Trump ben più di quanto lui avesse bisogno di loro. La sua tecnica è stata quella di conquistare il partito dall’esterno, con un’opa di successo e si vuole usare il linguaggio degli economisti. Nello stesso tempo si è impadronito dell’azienda e ora la rimodellerà secondo le sue necessità e le sue mire. Credo che i suoi sessanta milioni di voti metteranno rapidamente in riga qualsiasi repubblicano con velleità di indipendenza.

Il voto, si dice, ha espresso un risentimento sociale gravissimo, ma il risentimento è uno stato, non un programma. È destinato a durare il consenso di Trump una volta che sarà “costretto” a governare?
Difficile dirlo, anche perché il personaggio si è dimostrato del tutto imprevedibile già in campagna elettorale. Ha due mesi per dotarsi di uno staff di governo, di una burocrazia, e doverà occuparsene il partito. In realtà penso che Trump non sappia neppure da che parte cominciare, e che di conseguenza si concentrerà su quell’aspetto simbolico che lo ha portato al successo. Mi aspetto cioè mosse spettacolari di tipo fascistoide. Ha promesso di espellere undici milioni di immigrati clandestini, ma come Obama promise di chiudere Guantanamo e non c’è riuscito, Trump non potrà espellerli tutti, e si affiderà perciò a qualche espulsione spettacolare, a una ulteriore militarizzazione della polizia.
Su un altro piano si muoverà senza indugi, tantopiù che dispone della maggioranza nei due rami del Congresso, ed è la nomina del nono giudice della Corte Suprema, un tassello essenziale del potere. Avendo impedito l’accesso al ruolo del giudice nominato da Obama, i repubblicani ne metteranno uno dei loro.

Sarà sanabile la spaccatura manifestata e prodotta nel Paese dalla campagna elettorale?
La spaccatura c’è ed è soprattutto una spaccatura città-campagna, come è reso evidente dall’analisi dei risultati delle contee. Questa frattura è un elemento sociale destinato a durare e ha già prodotto un’ostilità reciproca a livello delle persone, nella vita quotidiana. Gli americani si stanno sempre piu richiudendo in tribù dove non c’è compatibilità tra gruppi diversi. È il risultato di quarant’anni di politiche che hanno polarizzato la società, facendo esplodere le diseguaglianze.

È possibile che i democratici ripartano da un Sanders, chiunque egli sia?
In effetti il partito sembrava più in salute di quanto non fosse. Sanders e i giovani che lo hanno sostenuto sono la dimostrazione viva che i problemi di disuguaglianza e di precarietà sociale presenti eccome all’interno del partito. Solo il carisma di Obama lo aveva tenuto insieme. Ho assistito a Philadelphia al rally di chiusura della campagna democratica e non c’era confronto fra Clinton e quell’Obama. Lei è di una generazione precedente, quella protagonista tra il 1992 e il 2000 quando il marito era alla casa Bianca, e proprio quel partito democratico accelerò il processo di globalizzazione, gli accordi di libero scambio, la finanaziarizzazione che ha condotto alla crisi del 200. Quel partito è morto. E ora che ne servirebbe uno, eredi di Obama non se ne vedono.

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