
In Kosovo i cartelli stradali sono scritti in due lingue: albanese e serbo-croato. Nel sud del Paese però, la variante serbo-croata del nome di un villaggio o di una strada viene sistematicamente cancellata con della pittura bianca. E per rimarcare che qui, un’oretta di auto a sud di Pristina, sono i kosovo-albanesi a farla da padrone spuntano a ogni angolo bandiere rosse con l’aquila a due teste. Non mancano poi monumenti e scritte inneggianti all’Uck, l’esercito di liberazione kosovaro che alla fine del secolo scorso ha cominciato da questa zona a ‘de-serbizzare’ il Paese. In questo scenario opera il capitano ticinese Igor Macoratti. «Sono un momò, valle di Muggio», ci saluta. Trentacinquenne arruolato per sei mesi nella Swisscoy, è responsabile del distaccamento della KFor che opera a Malisevo. Malisevo o meglio Malishevë, su per giù ventimila abitanti in sostanza tutti musulmani (il 99,5 per cento) e i cui dintorni collinosi che si affacciano sulle imponenti montagne di Montenegro e Macedonia, a pensarci bene, ricordano un po’ il Mendrisiotto. Il compito assegnato a Macoratti e ai suoi uomini? Tastare il polso della regione, essere gli orecchi e gli occhi della KFor, affinché non si ripetano più importanti manifestazioni di protesta che una decina di anni fa avevano sorpreso e trovato impreparate le forze di pace della Nato. E come si tasta il polso di una realtà come il Kosovo? Semplice: parlando con le persone, da quelle più influenti nelle varie comunità a quelle che si possono incontrare al mercato del bestiame o della verdura. Persone che si conquistano non con le armi, ma con la fiducia di cui godono le forze armate rossocrociate. Lo si nota quando per strada salutano le auto bianche con la bandiera svizzera, lo si è notato mercoledì mattina, quando assieme al capitano Macoratti abbiamo visitato una scuola di un paesino sperduto sulle montagne a quasi mille metri di altitudine.
Gli alunni, che vanno dai 5 ai 15 anni, ci sorridono accoglienti mentre seguono una lezione di ginnastica. All’aperto, perché della palestra non c’è neanche l’ombra. E fa freddo. Forse ci sarà uno spazio più adeguato nel nuovo edificio in costruzione cinquanta metri da lì. Si vedrà: in fondo i problemi di questa giovani non vanno certo ricondotti a un’insufficiente attività fisica, dato che devono loro malgrado camminare fino a quattro chilometri prima di arrivare nelle classi. Classi di 15-16 allievi stipate in aule che non superano i quattordici metri quadrati e che vengono riscaldate con una stufa a legno. Sui muri i disegni dei bambini. E pure lì spunta un’aquila a due teste su campo rosso. Che cosa si può sognare di diventare in una simile realtà? Un avvocato? Un calciatore? Un medico? «Ogni bambino – ci spiega il direttore dell’istituto – sogna qualcosa di diverso». E allora ecco due esempi. Il primo sono due gemelli che emigrati in Italia, racconta sempre il direttore, sono diventati «importanti business man». L’altro esempio, un ragazzo «non particolarmente brillante» che in Kosovo è oramai una star grazie a un video musicale postato su Youtube. Tecnologia e migrazione, due speranze. E intanto il capitano Macoratti cerca di captare delle informazioni dalla discussione con il direttore: «Quando fai una domanda – ci fa poi notare non ti rispondono quasi mai direttamente. Fanno tutto un giro per arrivare al punto. È tipico dei Balcani, specie delle zone più rurali». I soldati della Swisscoy lo sanno. E allora eccoli fare tutti dei giri di domande per cercare di arrivare lì, al cuore del paese.