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Il brigadiere Eugenio Filippini un ‘generale sui generis’

11 luglio 2016
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Per coloro, giovani tenenti che ‘pagavano il grado’ alla Scuola reclute di fanteria di Bellinzona tra i quali chi scrive, era il ‘Geni’. Non che ci si rivolgesse a lui in questa forma, fosse solo per il fatto che portava i gradi di colonnello, ma nei discorsi privati non era mai il ‘comandante’. Per noi rimase il ‘Geni’ anche in seguito, quando il Consiglio federale nominò Eugenio Filippini, scomparso negli scorsi giorni, alla testa della allora Brigata di frontiera 9, una carica prestigiosa per uno come lui che veniva dalla gavetta, diventato istruttore militare dopo qualche anno passato come funzionario all’interno dell’Amministrazione delle dogane. Il ruolo del ‘travet’ chiuso tutto il giorno in un ufficio non si addiceva a uno come lui e fu forse per questo, più che per egoistiche ambizioni, che scelse la via del grigioverde, strada che lo portò a mettere una stella (simbolo che ancora oggi spetta solo ai ‘generali’) sulle sue spalline. Per chi l’ha conosciuto, a determinare quella decisione fu probabilmente più il richiamo della montagna che non quello del militare, anche se alla missione affidatagli dall’Armata fu sempre disciplinatamente fedele, fino a diventare comandante di una grande unità.
Era allora l’epoca, a cavallo tra gli anni Sessanta ed i primi anni Novanta, dell’Esercito ’61, pensato per dare una risposta alla minaccia (presunta o reale che fosse) del Patto di Varsavia. Ma, soprattutto, all’interno di quella organizzazione il massiccio alpino continuava a rivestire un ruolo essenziale nel concetto di difesa della Svizzera, un’idea che risaliva in gran parte al pensiero di Henri Guisan. Questa visione strategica si sposava appieno con le radici – leventinese patrizio di Airolo ed orgoglioso di esserlo – e la personalità di Eugenio Filippini, in un tempo nel quale la fanteria di montagna era ancora tale e si muoveva prevalentemente a piedi, spesso e volentieri in altura. Per lui un ufficiale era tale quando dimostrava di saper resistere, fisicamente e psichicamente, anche in condizioni difficili in alta quota. Non cambiò mai questa sua visione, neppure quando fu promosso colonnello brigadiere e dopo, nel momento in cui sotto l’impulso dei tempi, l’esercito dovette rivedere le proprie visioni. Ma Filippini, in questa fase era ormai a riposo. Più un montanaro che uno stratega, verrebbe da dire, non certo con una valenza negativa. Non a caso la figura del ‘Geni’ si differenzia e non poco da quella di altri alti ufficiali ticinesi che ebbero l’onore di occupare posti di prestigio in quegli anni, da Enrico Franchini a Roberto Moccetti, divenuti entrambi comandanti di Corpo d’armata. Più un uomo da terreno, poco avvezzo alle frequentazioni dei posti comando delle Grandi unità, cosa che non gli impedì peraltro di entrare a far parte dello Stato maggiore generale, ciò che implica comunque sapersi districare anche tra le ‘scartoffie’ e prima ancora, con le teorie di alta tattica. Questa sua indole Eugenio Filippini l’aveva coltivata sin da giovane, prima come atleta e poi come dirigente sportivo, nello sci in particolare. Non è un caso se a lungo rivestì la carica di presidente della Federazione di sci della Svizzera italiana e di vicepresidente di quella nazionale in un periodo d’oro che in Ticino portò agli onori mondiali Doris De Agostini e Michela Figini. Fu ancora lui a dotare le guide alpine ticinesi di una struttura organizzativa volta a promuoverne e tutelarne l’immagine. Per Eugenio Filippini la montagna era tutto. Lo dimostra un aneddoto vissuto di persona ormai diversi anni fa. Raggiunta la cima del Monte Gradiccioli in compagnia di un allora deputato in Gran Consiglio, di cui tralasciamo il nome, incontrammo l’ex brigadiere. Ahinoi: quel deputato da soldato era stato punito con qualche giorno di arresto proprio da Filippini che se ne ricordò, risolvendo il caso con una battuta: «È tutto in prescrizione – disse –. Adesso siamo qui». Seguì una amichevole stretta di mano tra i due. In montagna può capitare questo e altro.

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