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Ciò che resta dell’Unione Sovietica, cent’anni dopo

Il 30 dicembre 1922 veniva fondato uno dei maggiori ‘imperi’ mai creati dall’umanità. Oggi Putin sfrutta il passato a proprio uso e consumo

In sintesi:
  • I presenti al teatro Bolshoj di Mosca forse non si rendevano conto che stavano scrivendo una grande pagina di storia
  • La tragedia in corso in Ucraina è figlia della nostalgia per quella “grandeur” persa nel ’91
Distaccati
(Keystone)
30 dicembre 2022
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Nostalgia per la gloria che fu, sindrome di "Belovezh" e soprattutto mancata analisi critica collettiva di un passato tragico caratterizzato da un oceano di sangue. Ecco cosa resta oggi in Russia dell’Unione Sovietica, la superpotenza scomparsa nel 1991, sorta sulle ceneri dell’impero zarista, ufficialmente il 30 dicembre 1922. Giusto 100 anni fa i presenti al teatro Bolshoj di Mosca forse non si rendevano conto che stavano scrivendo una grande pagina di storia. La speranza di costruire un mondo nuovo e migliore, nata con la Rivoluzione di ottobre nel ’17, aveva avuto la meglio, dopo una spaventosa guerra civile, sull’edificazione di una società vecchio stampo.

Quasi con distacco, come aveva fatto pure nel 2017, la Russia ricorda adesso anche questa ricorrenza. "Prima ci chiamavamo diversamente, ma eravamo sempre noi", ha evidenziato a più riprese in questi anni Vladimir Putin, che considera il crollo dell’Urss una delle più grandi "disgrazie" geopolitiche nella storia. La tragedia in corso in Ucraina e le politiche, che hanno isolato il "gigante" slavo dalla comunità internazionale, sono figlie proprio della nostalgia per quella "grandeur" persa nel ’91.

Maledetta Belovezh! Sì, Belovezh, la riserva bielorussa dove tra il 7 e l’8 dicembre ’91 i leader delle tre repubbliche slave sovietiche – Eltsin, Kravchuk e Shushkevich – sciolsero uno dei maggiori "imperi" mai creati dall’umanità. Ma diversamente, allora, per evitare guai peggiori non si poteva fare! A tavolino, a posteriori, forze revansciste inculcarono in molti russi, in primis nelle generazioni anziane, il dubbio che provocò la "sindrome" di Belovezh. La sindrome dell’inganno – "ci hanno rubato la Patria" – si è diffusa a metà del secondo mandato di Putin, quando i forzieri si erano riempiti di petrodollari e l’Occidente aveva aiutato Mosca a uscire dalla bancarotta dello Stato sovietico con politiche energetiche generose. In breve, un piano Marshall camuffato.

Peccato che Putin e i revanscisti tralascino di ricordare che nel ’91 l’Occidente era contrario allo scioglimento dell’Urss. Basterebbe leggere il discorso di George Bush Sr. a Kiev, il 1º agosto 1991, in cui il presidente Usa disse agli ucraini di starsene tranquilli. Ma dopo 17 giorni ci pensarono i vetero-comunisti col golpe contro Gorbaciov a far saltare la santabarbara sovietica. La mistificazione e la falsificazione del passato sono caratteristiche fondamentali di questo mondo odierno sempre più simile a quello raccontato da George Orwell in ‘1984’. Appunto. Con un Paese a pezzi, affamato e fallito, Boris Eltsin scelse dal ’92 di seguire, come nella Spagna post-franchista, la strada dell’"accordo del silenzio". Erano altre le emergenze. Il primo presidente democratico post sovietico, fatto poi passare come un "ubriacone", non voleva ufficialmente aprire le ferite sanguinanti sulle repressioni, sui massacri, sul disastro provocato dal mancato rispetto per la vita del prossimo. Ci pensarono organizzazioni come "Memorial" a ristabilire la verità storica e a far riabilitare le vittime. Proprio "Memorial", appena chiusa dal regime. Eltsin non poteva immaginare che un giorno sarebbe potuto arrivare qualcuno che si sarebbe appropriato del passato e l’avrebbe utilizzato a proprio uso e consumo. Che la lezione russa serva da avvertimento.

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