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L’urgenza relativa di riformare l’Avs

‘Taglio delle rendite’, risanamento ‘inevitabile’: mezze verità e allarmismo la fanno da padroni nella campagna in vista della votazione del 25

Si vota il 25 settembre
(Keystone)
15 settembre 2022
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Non parliamo di una riforma con la ‘r’ maiuscola. ‘Avs 21’ non è la ‘Previdenza vecchiaia 2020’, l’ambizioso progetto di riforma simultanea del 1o e del 2o pilastro respinto alle urne nel 2017. Ora si tratta semplicemente di ‘stabilizzare’ l’Avs. In altre parole: di fare in modo che ci siano abbastanza soldi per pagare le rendite attuali fino alla fine del decennio.

‘Semplicemente’? Avs 21 è facile da capire, sia sul piano del contenuto che su quello politico (siamo in un classico schema sinistra/destra, benché a difenderla vi sia il consigliere federale socialista Alain Berset). Eppure ci si raccapezza a fatica. A complicare le cose, a rendere il tutto di difficile lettura, sono le mezze verità (o mezze bugie, se preferite) e gli allarmismi propagati ad arte da avversari e fautori.

Sinistra e sindacati battono il chiodo del "taglio delle rendite". Fino a 26mila franchi ci perderebbe in media una donna. Il Parlamento, inoltre, avrebbe "già deciso" il prossimo passo in caso di sì il 25 settembre: tutti in pensione a 66 anni, poi a 67. Invece Consiglio federale, partiti borghesi e organizzazioni economiche rispolverano il mantra dell’Avs sull’orlo del baratro: il rapporto tra attivi e pensionati volge inesorabilmente a favore dei secondi, la speranza di vita aumenta, da qui al 2035 dovremo finanziare le rendite di un milione circa di ‘baby-boomers’ (nati tra il 1955 e il 1970). La legge della demografia non lascia scampo: la riforma è "urgente".

Ora: il contesto demografico è delicato, non c’è dubbio. E se l’Avs è tornata nelle cifre nere nel 2020 e nel 2021, è soltanto grazie ai 2 miliardi di franchi che affluiscono ogni anno nelle sue casse dopo il sì del popolo alla riforma fiscale Rffa nel 2019. La salute finanziaria del 1o pilastro non dipende però esclusivamente dalla demografia. Un ruolo assai importante – benché a lungo sottovalutato nelle previsioni ufficiali – lo svolge anche la massa salariale complessiva (tendenzialmente crescente), che detta l’entità dei contributi prelevati, contributi dai quali provengono tre franchi su quattro incassati dall’Avs per pagare le rendite.

E a proposito di rendite: Avs 21 non porterà ad alcun taglio di quelle attuali. Le donne della generazione di transizione (nate tra il 1961 e il 1969), in particolare quelle con redditi modesti, beneficeranno per tutta la vita di un bonus mensile piuttosto generoso e potranno continuare ad andare in pensione a 64 anni senza perderci. Le donne nate dopo il 1969, questo è vero, a parità di anni lavorati e contributi versati avranno una rendita inferiore: per mantenerla al livello odierno, dovranno lavorare un anno in più. Il Parlamento, per contro, non ha deciso alcunché sull’aumento a 66 e quindi a 67 anni dell’età di pensionamento: si è limitato a ordinare al Consiglio federale di mettere in cantiere una nuova riforma entro il 2026. Punto.

Quella attuale, di riforma, non darebbe ossigeno al 1o pilastro oltre la fine del decennio, così come un rifiuto popolare non lo farebbe crollare domani. Facciamo per dire che l’urgenza è relativa. In un caso come nell’altro, una riforma con la ‘r’ maiuscola è inevitabile a termine: attorno al 2030 nel primo, qualche anno prima nel secondo. Sarebbe dietro l’angolo, certo. Ma il tempo basterebbe per predisporre, se proprio sarà necessario, un’ulteriore iniezione di denaro nell’Avs (via un modesto aumento dell’Iva o dei prelievi sui salari, senza scomodare la Bns). E così nel frattempo potremmo misurare la reale volontà di Parlamento e aziende di ridurre le disparità di genere in fatto di 2º pilastro e salari, prima di tornare casomai a parlare di misure strutturali come la pensione a 65 anni per le donne.

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