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‘Ora potremo addormentarci senza più tremare’

In auto fino a Przemysl, per portare gli aiuti ticinesi ai rifugiati. E al ritorno con noi Olena, Svetlana e la piccola Zlata, fuggite dalle bombe di Kiev

Olena, la piccola Zlata e Svetlana con Roberto, prima di partire da Przemysl

In auto fino a Przemysl, per portare gli aiuti ticinesi ai rifugiati. E al ritorno con noi Olena, Svetlana e la piccola Zlata, fuggite dalle bombe di Kiev

25 marzo 2022
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«Vogliamo poterci addormentare senza tremare, senza sentire più rumori acuti nel cielo e di quelli forti e spaventosi da terra». Siamo in viaggio da quasi diciotto ore, finalmente Olena si apre con noi. Siamo ormai in Svizzera, quasi arrivati in Ticino, e la 48enne, la 29enne figlia Svetlana e la nipotina Zlata, di 9 anni, si rilassano. Per tutto il viaggio restano distaccate, gentili ma riservate, con la testa evidentemente altrove e lo sguardo che nega un’intervista. Varcato il confine austro-svizzero nei pressi del lago Bodanico, tirano un sospiro di sollievo, accennano per la prima volta un sorriso che non sia di ringraziamento. Cominciano a parlare di più fra di loro, la nonna fa da Cicerone a nipote e figlia, la piccola si attacca al finestrino: è «wow!» di fronte alle cascate delle Alpi, ai castelli di Bellinzona, al golfo di Lugano visto dal pontediga di Melide. Svetlana ha una risata contagiosa. Finalmente ci permettono di entrare nel loro mondo, cominciamo a parlare davvero e anche a scherzare: capiscono che quello strano terzetto ha mantenuto la promessa. E che loro hanno riposto correttamente la propria fiducia.

Partenza da Camorino a mezzanotte

Sono state infatti proprio la dolce Svetlana e la risoluta Olena a sceglierci, lunedì sera all’interno dell’enorme centro di accoglienza – ricavato negli spazi di un ex centro commerciale alla periferia della città – per rifugiati ucraini di Przemysl, in Polonia. Dopo che Roberto Bucci ci ha raccontato nei giorni scorsi le sue attività da volontario in Ticino, abbiamo deciso di accompagnarlo nella città di approdo di centinaia di migliaia di profughi, a quindici chilometri dal confine con l’Ucraina, con la guerra. In auto con noi anche Martina Casanova, giovane amica di Roberto affascinata dalla sua precedente esperienza di trasporto di rifugiati in Svizzera. La partenza è fissata attorno alle 23.30, di domenica sera. Ci troviamo a Lamone, dove vive Roberto, e con la sua auto ci dirigiamo a Camorino, al garage che ci ha messo a disposizione il pulmino per la trasferta. Due gradite sorprese: il pieno di benzina e un po’ di provviste. Grazie! Carichiamo il mezzo con scatole e borse contenenti beni di prima necessità di vario genere donati da diversi ticinesi e raccolti da Roberto. A Camorino ci raggiungono dal Locarnese Massimo Gibellini e Oliver Battaglia, anche loro con un pulmino diretti in Polonia, ma a Varsavia, con l’incarico di andare a recuperare una numerosa famiglia, fra cui la neonata Uljana, scappata da Kharkiv. Si parte attorno a mezzanotte.

Per strada in Polonia ambulanze, convogli dell’Onu e veicoli umanitari

Il viaggio di andata scorre velocemente: l’ansia di arrivare a destinazione, portare gli aiuti e ripartire con chi sta fuggendo è tanta. Coira, Bregenz, Monaco di Baviera, Ratisbona, Praga, Brno. A Ostrava ci fermiamo un’ultima volta con Massimo e Oliver, da Gliwice le due strade si separeranno. Durante il viaggio si discute molto di migrazioni e anche di disparità di trattamento fra rifugiati ucraini e quelli di altre zone del mondo toccate dal conflitto. «Fosse per me farei venire tutti quelli che hanno bisogno, non mi dà fastidio nessuno», il pensiero di Martina. «Per me è importante aiutare le persone che non hanno i mezzi per viaggiare, altrimenti diventa un servizio di taxi – osserva invece Roberto –. Voglio poter dare una speranza a chi non ce l’ha più. So cosa significa vivere con la speranza che pian piano si spegne: quando ero in collegio (Roberto è cresciuto senza genitori, ndr) vedevo arrivare le famiglie per adottare altri bambini, mentre io restavo solo con la speranza che questo succedesse». Le stazioni di benzina e i cartelloni pubblicitari in Cechia e Polonia ci ricordano, qualora ce ne fosse bisogno, che in Ucraina c’è la guerra: svariate le iniziative a supporto del Paese e dei suoi civili che dominano il paesaggio nei due Paesi, certamente più visibili che in Svizzera o in Germania. Nei pressi di Cracovia superiamo un convoglio di furgoncini delle Nazioni Unite, mentre man mano che ci avviciniamo a Przemysl crescono i veicoli che, come il nostro, riportano la dicitura ‘Humanitarian Help’. Per contro, dalla direzione opposta, non si contano le ambulanze che viaggiano a sirene spiegate.

L’emergenza umanitaria è alle porte di Przemysl

Arriviamo a Przemysl attorno alle 16.30 di lunedì e la nostra prima destinazione è la stazione ferroviaria, la più celebre d’Europa ormai grazie ai collegamenti giornalistici delle ultime settimane. L’impatto è effettivamente un po’ deludente: ci sono più giornalisti e cameraman che rifugiati, o quasi. Scopriamo quasi subito che il centro nevralgico dell’aiuto polacco è l’ex centro commerciale della Tesco, alla periferia est della città, trasformato in centro di registrazione e accoglienza. Dopo una mezz’oretta alla stazione, utile per raccogliere qualche testimonianza e per crearsi dei contatti, ci dirigiamo al centro. Tutt’altro scenario: tende da campeggio piantate sui prati adiacenti a camper provenienti dai quattro angoli del continente, un’interminabile fila di cabine sanitarie per i bisogni fisiologici, decine di autobus, tende della polizia, dell’esercito e della protezione civile polacchi. E tantissime persone: l’emergenza umanitaria è qui.

‘Voglio salvare i bimbi di Kiev dalle bombe’

Entrare nel centro senza essere registrati è impossibile, i controlli sono rigorosi. Durante le fasi di registrazione facciamo la conoscenza di Paolo, un italiano arrivato la sera prima alla ricerca di un passaggio per Kiev che ha le idee in chiaro: «Voglio portare via dalle bombe di Kiev i bambini». Ad aiutarci a portare dentro pacchi e borse è invece Misha, un volontario bielorusso di circa 70 anni ma con l’energia di un 20enne, che non parla una parola d’inglese ma riesce a farsi capire perfettamente. Il centro è ben organizzato, e dopo aver consegnato il materiale benefico ticinese entriamo nella più grande delle sale: un enorme accampamento interno con decine di file di letti e coperte, dove persone di tutte le età e animali domestici convivono in attesa di ripartire. «Qui sono sistemate le persone che non hanno legami in altri Paesi europei e che non sanno ancora dove andare», ci spiega Andrzej, 23enne di Breslavia che ha interrotto l’università per venire a dare una mano.

Lugano? ‘Where is?’

Non sembra proprio così però: la maggior parte delle persone con le quali parliamo ci dicono che aspettano di partire per la Germania o la Svezia, principalmente, e che non sono interessati a un passaggio per Lugano. «Dov’è Lugano?» ci chiedono anzi molti, illuminandosi al «70-80 kilometres from Milan, but not in Italy». L’impressione è che sia un po’ una giustificazione: meglio, forse, aspettare qualche giorno in più e partire con un autobus che affidarsi a degli sconosciuti. Pochi, pochissimi, parlano l’inglese. Ci affidiamo alle nozioni di russo di Roberto e al traduttore informatico. Dopo un paio d’ore di tentativi andati a vuoto, si avvicina un’energica signora bionda dallo sguardo deciso. È Olena, che – tramite la figlia Svetlana che invece l’inglese lo parlicchia – ci pone una serie di domande mirate sullo statuto di rifugiato in Svizzera, sulle possibilità lavorative e su quelle scolastiche per la bambina, sul viaggio. Non è una sprovveduta, per fortuna. Dopo averci pensato, non troppo, acconsentono. Registriamo la loro partenza e ci avviamo attorno alle 21.

Fuggite da Kiev, originarie del Donbass

Alla diffidenza delle prime ore si aggiunge nella notte un imprevisto: la piccola Zlata si sente male, vomita, ci fermiamo. Sentiamo che non è ancora il momento di fare domande. In Cechia, durante la notte, ci ricongiungiamo intanto con Massimo e Oliver e i rifugiati caricati a Varsavia. «Siamo originari di Rovenki, a 60 chilometri da Lugansk (nel Donbass, ndr)» rivela finalmente Olena una volta entrati in Svizzera. «Abbiamo già perso una volta la nostra patria: nel 2006 la situazione economica nella nostra città era critica. I minatori non ricevevano uno stipendio da un anno, non c’era niente per sfamare le loro famiglie». E quindi, il trasferimento a Kiev, «che ha dato alla nostra famiglia stabilità economica e l’opportunità di dare una buona educazione a Svetlana. Ma casa nostra, le tombe dei nostri genitori, una parte della nostra anima, sono rimaste a Rovenki». Dal 2014, la città è diventata parte della Repubblica Popolare di Lugansk e Olena e la sua famiglia non ci sono più tornati.

Nascoste in un villaggio, poi occupato dai russi

Sedici anni dopo, a spingerli a migrare non sono stati motivi economici ma una guerra. «A febbraio le truppe russe hanno installato attrezzature militari sul confine. Ma nessuno di noi ha pensato che si sarebbe scatenata una guerra sanguinosa». L’impensabile è però accaduto: «Siamo stati svegliati alle 4 del mattino del 24 febbraio da spari ed esplosioni che si sentivano da qualche parte in lontananza. Un drone è stato abbattuto nel cielo sopra a casa nostra e i detriti sono caduti in via Koshica, dove vivevamo». Con le scuole chiuse e la mobilitazione degli uomini, le due donne e la bambina hanno seguito le orme di molti concittadini: hanno lasciato la città. «Ce ne siamo andate durante un’evacuazione di emergenza, con poche cose essenziali. Vivere a Kiev è diventato sempre più pericoloso. Ci siamo rifugiate in un villaggio, ma dopo 21 giorni siamo dovuti andare via anche da lì: i carri armati russi sono entrati nel villaggio di Baryshevka».

‘In Polonia un cielo pacifico’

Altra fuga, altra destinazione: Leopoli, «dove abbiamo passato una notte alla scuola numero 77, con il suono delle sirene e delle esplosioni in lontananza che non ci hanno fatto dormire». Nella città galiziana riescono a salire su un convoglio di evacuazione guidato da un volontario britannico, che le porta al confine polacco-ucraino di Medyka-Shehyni. «La traversata del valico è durata circa quattro ore, c’erano tantissime persone, molti anziani e malati e moltissimi bambini. Tanti piangevano. Questa fuga per noi è stata moralmente e mentalmente difficile, siamo inquietate per il destino dell’Ucraina. Abbiamo avuto molta paura, soprattutto per la vita della bambina. Ma era la cosa giusta da fare: entrate in Polonia abbiamo subito sentito come una pace della mente sotto a un cielo pacifico e la felicità di Zlata ci ha ripagate dello sforzo».

‘Mio marito difende l’aeroporto di Kiev’

Le due donne non entrano nei dettagli, pesano ogni parola. Difendono la propria dignità omettendo le parti più cruente e spiacevoli. «Inizialmente, su consiglio di amici, avremmo voluto andare in Spagna o in Italia, ma quando vi abbiamo visti ci siamo decise per la Svizzera: è uno dei Paesi più stabili e sicuri al mondo, dove speriamo finalmente di trovare conforto psicologico. Speriamo che Zlata possa tornare a scuola, a comunicare con i coetanei e non a tremare di paura in un rifugio antiaereo». Durante la lunga chiacchierata, siamo quasi a destinazione, Olena non tradisce mai un momento di commozione. «Abbiamo già pianto molto quando siamo partite da casa – confessa però a sorpresa – E sono molto preoccupata per mio marito Roman (ci mostra una foto, ndr), che è rimasto a proteggere l’aeroporto di Borispil e gli amici di famiglia. Molti parenti e amici sono rimasti a Kiev, ci sentiamo ogni giorno con loro per sapere come stanno, sperando che siano vivi». Il discorso, inevitabilmente, si sposta anche sulle cause politiche della guerra. Ragioni delle quali non vogliono parlare. Ma «non ci sono e non ci sono mai stati nazisti in Ucraina al potere, siamo una Nazione onesta e pacifica. E vinceremo: questa guerra non durerà a lungo».

A Vacallo la salvezza, l’abbraccio, le lacrime

E anche il viaggio è ormai agli sgoccioli. Dopo quasi venti ore di auto, stravolti ma felici, arriviamo a Vacallo. Il sindaco Marco Rizza e numerosi volontari stanno sistemando a tempo di record diversi appartamenti messi a disposizione per i rifugiati, con mobili e beni di prima necessità raccolti dalla cittadinanza. Anche i rifugiati trasportati da Massimo e Oliver sono arrivati. Aiutiamo Olena, Svetlana e Zlata a sistemarsi. La piccola e la mamma ci abbracciano tradendo una commozione sin qui trattenuta: non resistiamo alle lacrime neanche noi, il sollievo per avercela fatta è tanto, l’inquietudine per quanto sta accadendo è troppa.

IL CENTRO DI ACCOGLIENZA

Polonia: esame superato

Il centro di accoglienza per rifugiati alle porte di Przemysl è un ex centro commerciale. Enorme, accedervi senza registrarsi precedentemente è impossibile. Ed è positivo, nonché voluto: «All’inizio capitava che alcuni stranieri venissero qui per trasportare le persone, ma poi di queste non si è più saputo nulla. O altri ancora che sceglievano solo donne e bambini, mentre uomini e anziani restavano qui. Non va bene». Pertanto ci si registra: una procedura per entrare anche solo per consegnare scatole di aiuti, un’altra per annunciarsi come trasportatore di persone. Quelli che una volta erano negozi, all’interno, sono ora divisi in magazzini a seconda del materiale depositato: c’è quello per il cibo, quello per i prodotti sanitari per le donne o per i neonati, l’angolo con gli aiuti per gli animali domestici. Sono attive una farmacia e due mense, nonché un’improvvisata ludoteca tappezzata con i disegni dei bambini inneggianti perlopiù alla pace fra i due Stati.

E poi, diversi spazi sono stati allestiti ad accampamenti: interminabili file di brandine. Poco igieniche, soprattutto in tempo di pandemia, ma anche ben organizzate queste stanzone. I rifugiati vengono divisi infatti in base alla città polacca o alla Nazione estera di destinazione. E per chi non sa ancora dove andare? C’è lo spazio più grande, un gigantesco locale con decine di file di letti ammassati che ospitano persone senza ancora un futuro. Tra queste, Olena, Svetlana e Zlata. Grande l’organizzazione anche alla stazione ferroviaria della città, dove decine di poliziotti in passamontagna ma gentili e disponibili coordinano i numerosi volontari provenienti da tutta Europa e donne locali offrono un piatto polacco a base di carne e cavoli. Ma quando arriviamo non sembrano esserci molti rifugiati. «In effetti il flusso è leggermente diminuito negli ultimi giorni – ci dice Olaf, un volontario norvegese –, ma bisogna considerare che in Ucraina il traffico ferroviario e stradale è molto perturbato. Gli arrivi sono quindi irregolari e spesso notturni».

L’impressione generale è che per ora la Polonia abbia superato il test dell’emergenza umanitaria. Complici un forte sviluppo economico negli ultimi decenni e i vastissimi aiuti giunti da ogni dove, la risposta appare adeguata. Diverso, forse, lo scenario che avremmo visto in zone più povere e meno sostenute internazionalmente, come la Moldavia.