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Unitas, la ‘lunga mano’ e i troppi silenzi

Un gruppo di soci dell’Associazione ciechi e ipovedenti della Svizzera italiana chiede le dimissioni del comitato per casi di molestie e mobbing

Unitas
(Ti-Press)
10 marzo 2022
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Venivano definite ‘tali situazioni’. Riferimenti generali per celare comportamenti ‘inopportuni’, più volte denunciati internamente, che avrebbero potuto compromettere l’importante funzione che l’uomo rivestiva all’interno di Unitas. Un caso affiorato recentemente dopo che un’interrogazione dei Verdi al Consiglio di Stato ha evidenziato i contorni di una vicenda che riporta, se confermate, a molestie fisiche e verbali perpetrate nell’arco di almeno un ventennio. Vittime – tutte donne – sarebbero state dipendenti, utenti e volontarie dell’Unitas, l’Associazione ciechi e ipovedenti della Svizzera italiana con sede centrale a Tenero, dove c’è la casa anziani Tarcisio, e dotata di varie strutture sparse in Ticino, fra cui il centro diurno Andreina di Lugano. Donne – di cui oggi riportiamo le testimonianze – che avrebbero subìto negli anni pesanti apprezzamenti, riferimenti sessuali, sfacciati e imbarazzanti contatti fisici, aggressioni, stalking, abuso di potere. Il clima, a cominciare da un paio di anni fa, si è dunque fatto via via più pesante all’interno di Unitas. Ma il disagio circolava ormai da tempo, da decenni. Eppure chi, con coraggio, si esponeva criticando quell’ingiustificabile modo di fare sarebbe stato fatto oggetto – anche da parte di tutto l’entourage di quella che era una figura ai vertici dell’associazione – di pressioni, licenziamenti e mobbing (in quest’ultimo caso anche nei confronti di uomini). Chi riportava questi comportamenti sarebbe stato zittito e i comportamenti ‘giustificati’.

Dalle voci nei corridoi alle testimonianze

Ma perché tutta questa ‘leggerezza’ nel sottovalutare, nel tempo, i non isolati sfoghi? Per due motivi, come riporta un’e-mail inviata dall’attuale presidenza al comitato nel dicembre 2019, dopo che nei corridoi delle strutture di Unitas le voci si erano fatte più pressanti e avvalorate da nuove testimonianze, tanto da sollecitare un intervento: "Dopo la nostra riunione – si legge – mi sono preso il tempo di riflettere sulla lettera che avevamo abbozzato in chiusura e di consultare, a titolo personale, un giurista di fama e di mia fiducia che garantisce l’assoluta riservatezza. Come raccomandatomi esplicitamente dalla persona in oggetto, una lettera di tono eccessivamente punitivo, oltre a essere ritenuto umiliante per il destinatario (l’alto dirigente protagonista delle molestie, Ndr.), arrischierebbe di ritorcersi contro di noi e di nuocere all’immagine della Unitas, con conseguenze che non possiamo prevedere e con il pericolo di uscite sulla stampa".

L’unico pensiero dunque, anziché tutelare coloro che denunciavano azioni inappropriate, sarebbe stata la ‘difesa’ del collega e la necessità di evitare una ‘fuga di notizie’ per non compromettere la reputazione dell’associazione. Eppure il problema si direbbe fosse chiaro a tutti, tanto da citare, nello stesso invio di posta elettronica, l’articolo 198 del Codice penale svizzero. Per denunciare quindi le molestie sessuali? No, per evidenziarne la possibile prescrizione. Da qui la decisione unilaterale, comunicata sempre al comitato nella stessa e-mail della presidenza, di riformulare la lettera indirizzata al protagonista delle avance "attenuando le espressioni". Un esito concordato che però ha visto la sua estromissione dalle svariate cariche istituzionali che l’uomo rivestiva in seno a Unitas, anche a titolo volontario, fra membro di commissioni, direttivi e delegato; ma che lo ha ‘mantenuto’ – particolare non indifferente – nelle due fondazioni che fanno capo alla stessa Unitas e in cui continua tutt’oggi a operare. Probabilmente anche per questo motivo, dopo alcuni mesi nuove critiche giungono al tavolo del comitato. In uno scambio di scritti si parla di "situazione delicata".

Non si capisce bene però come mai la risposta agli interrogativi di una famiglia venga inviata in copia sia allo stesso autore delle presunte molestie, sia al consigliere di Stato Manuele Bertoli – capo del Dipartimento educazione cultura e sport, e nei primi anni 2000 direttore di Unitas – anziché al titolare del Dipartimento sanità e socialità (Dss) Raffaele De Rosa, a cui Unitas dovrebbe fare riferimento. È proprio il Dss infatti, dopo l’ennesima segnalazione giunta la scorsa fine estate, ad allarmare la Polizia cantonale. La quale attualmente sta svolgendo degli accertamenti; non escluso un passaggio del dossier al Ministero pubblico.

Il Dss: ‘Segnalato alla polizia’

«Non appena siamo venuti a conoscenza di una situazione che sembrava e poteva essere problematica o critica – ci conferma Gabriele Fattorini, direttore della Divisione dell’azione sociale e delle famiglie al Dss – l’abbiamo immediatamente segnalata alla Polizia cantonale. Da parte nostra abbiamo raccolto i primi elementi sottoponendoli subito all’autorità competente. Dopo aver ricevuto e captato questa situazione, l’abbiamo segnalata alla polizia che ha la competenza d’investigare ulteriormente. Siamo in attesa anche noi dei possibili sviluppi».

Parlavamo di casi risalenti ad anni e, addirittura, a decenni prima. Già a inizio 2018 in un verbale di un incontro si legge di "più donne, non solamente un paio" che confermerebbero che l’uomo "allunga le mani". Una volta riferito al presidente, costui avrebbe semplicemente risposto "Per carità! Lui fa solo degli apprezzamenti...". Il tutto, come viene evidenziato, "senza le dovute verifiche di quanto sollevato". Una sottovalutazione "di situazioni problematiche gravi" quantomeno "poco funzionale", per citare ancora i documenti a cui ‘laRegione’ ha avuto accesso. Come quelli del 2001 quando un tragico fatto, il suicidio di un’operatrice, aveva minato la credibilità della dirigenza. Nella missiva, che era stata ritrovata dalla polizia, oltre a riportare le sue ultime volontà accennava a "persone non gradite". C’è di più. In quello che viene indicato come il suo testamento morale – ossia cinque fitte pagine in cui sono elencati nomi, colpe e mancanze di quelli che lei considerava i responsabili della sua morte – la donna riporta una serie di considerazioni legate anche alla gestione finanziaria ed economica dell’associazione: "La mia lettera – scriveva – non è un gesto di rivalsa, non servirebbe a niente e a nessuno, vuole semplicemente spiegare i perché. Vuole rivelare ad alta voce i nomi e gli atti infami, svelare senza dilungarmi oltre il necessario la disonestà, la cattiveria di chi mostra un volto ‘sincero’ e ‘benevolo’ per nascondere la propria anima devastatrice e demoniaca e che si è vendicato e sfogato non solo su di me attraverso un mobbing spietato (lo scrive tutto a lettere maiuscole, ndr.), ma anche su altre persone, comprese dei soci dell’Unitas".

Solo lo scorso 20 novembre il Comitato Unitas ha approvato un Regolamento su ‘Mobbing e molestie sessuali sul posto di lavoro’: comportamenti, viene indicato nel secondo capoverso, che "non sono assolutamente tollerati". Tolleranza zero, dunque quantomeno disattesa dal presidente attuale che intervenendo su un recente articolo di ‘Tio’ parla di provvedimenti a suo tempo presi e di una vicenda chiusa da due anni. Peccato però che allora non sia stata coinvolta la polizia: "Non abbiamo segnalato nulla – è l’infelice giustificazione –. Se qualcuno l’ha fatto è qualcosa di assolutamente arbitrario. Voler riaprire questa vicenda è diffamazione". Sarebbe piuttosto forse stato meglio chiamarla giustizia.

‘Ho sempre detto: tenetevi alla larga da lui’

Aveva in mano tutto e... tutte. Accentrando su di sé molte delle cariche e dei compiti legati a Unitas, era riuscito negli anni a far dipendere dal proprio operato impiegate, volontarie, socie e utenti. Tutto (e tutte) doveva passare da lui e lui sapeva tutto. «Ricordo quando quasi vent’anni fa per un problema grave agli occhi – si apre alla nostra redazione una giovane socia – sono entrata a farvi parte. Mi approcciò quasi subito. Aveva cominciato a telefonarmi a casa con una certa regolarità. Ogni scusa era buona. Poi ha iniziato a chiedermi se avessi un ‘amico’, cosa ci facevo con lui... Quando ci vedevamo si avvicinava per darmi due baci, ma non come quelli che si danno fra amici, erano fastidiosi, e io ero sempre molto a disagio. Non mancava di fare battute di basso profilo, accennava all’organo maschile, anche volgarmente. Può immaginare il mio imbarazzo... Quando ebbi bisogno di un prestito per alcune attività legate alla mia ipovisione mi volle incontrare. Mi fece sedere vicina a lui e finì per mettermi le mani sulle ginocchia; mentre parlava continuava ad accarezzarmele, era una situazione terribile. Non sapevo come comportarmi... Cercavo di tenere le distanze, ma finivo per trovarlo in ogni occasione legata a Unitas. E lui riusciva sempre a farmi capire che lui era lì e che sapeva che anch’io c’ero... A un certo punto ho dovuto bloccarlo sul telefonino... Mi sono confidata prima con una persona, poi ho scritto al comitato, ma era la mia parola contro la sua. Così nessuno è mai intervenuto».

Fra malessere e soggezione

Anche un’altra utente ci riporta di quei continui atteggiamenti che provocavano malessere e soggezione: «Parlava sempre... di quello! Più di una volta ha tentato di baciarmi. Era un viscido. Spesso ti toccava, ti metteva le mani in mezzo alle gambe, sul seno con la scusa di prenderti a braccetto. Ci tentava con tutte, con me fin da quando entrai in Unitas circa trent’anni fa. Probabilmente sapeva di restare impunito, anche perché molti conoscevano il suo vizietto. Così ci provava con tutte! Il comitato però, pur ricevendo segnalazioni, con la scusa che nessuna ha mai avuto il coraggio di denunciare ha sempre lasciato correre. Tanto che ancora oggi alle mie accompagnatrici dico sempre ‘tenetevi alla larga da lui’».

E non solo allungava influenza e mani sulle associate. Di mira erano prese anche volontarie e operatrici: «Ti afferrava all’improvviso da dietro. Anch’egli cieco diceva spesso "con la lingua e con le dita posso fare di tutto". Durante i soggiorni bussava alle porte, era invadente... Anziché sentirti protetta, ti sentivi togliere la libertà! Anche perché si era, purtroppo, in una morsa fondata sul ricatto: chi per il lavoro, chi per un bisogno, chi per un sussidio, chi per la disponibilità di un appartamento. Considerava come se tutto quanto dell’associazione fosse cosa sua: i beni, gli immobili, le donne... E lui anche per questo motivo si è sempre insinuato in tutti i gruppi, ricreativi, sportivi, religiosi... Solo in questo ultimo periodo ho raccolto altre confidenze, alcune molestie erano al limite dell’aggressione fisica e psicologica. Chissà cosa non sappiamo... Le persone coinvolte oggi però sono pronte a parlare!».

‘Delle molestie si sapeva’

Come parla anche un’altra dipendente: «Delle sue molestie si sapeva. Con me ci ha provato alla prima cena del personale. Soprattutto con chi era più estroversa aveva subito un atteggiamento spavaldo. Ricordo che nell’abbracciarmi mi toccava insistentemente la schiena e i laccetti del reggiseno. Qualcuno mi disse che, come faceva con tante altre, era ‘per sentire la misura del seno’. Poi c’è stata la volta delle mani sulle ginocchia fino a salire lungo la gamba...». Non c’era luogo in cui non fosse attivo: «Anche nel gruppo spirituale, mentre si era riuniti in chiesa, allungava le mani sui sederi... Durante le gite, in ascensore... – ci riporta un’altra donna –. La cosa che mi ha sempre fatto soffrire è stato il comportamento di quanti lo hanno coperto». La presenza dell’uomo era dunque opprimente, accentratrice, quasi a voler entrare anche nella privacy e nell’intimità delle persone: «Chiedeva dei rispettivi compagni, suonava alle porte delle camere quando vi erano le vacanze comuni, continuava a telefonare. Era ovunque, e ciò creava molto disagio. Tante donne ora hanno avuto la forza di dire tutto, anche fra di noi...».

Chieste le dimissioni dei vertici

E di questo, anche il nostro giornale ha conferma. Una lettera inviata alla redazione e firmata da diversi soci chiede le dimissioni dell’attuale comitato di Unitas ‘colpevole’ secondo loro di non essere mai intervenuto, di aver coperto situazioni che via via gli venivano riportate in corpore o ai singoli membri: "È tempo – dicono – di rompere il silenzio". Anche perché non vi sarebbero solo casi di molestie. In molti, negli anni, hanno criticato anche la stessa gestione finanziaria. Nel 2001 alcuni articoli pubblicati sulla stampa avevano infatti portato alla luce investimenti sbagliati che avevano portato la Fondazione a perdere svariate centinaia di migliaia di franchi: «Chi si permetteva di criticare l’operato però veniva allontanato in tutti i modi. Per questo motivo è sempre stato difficile parlare. Chi si investiva del ruolo di portabandiera rimaneva poi solo».

‘Manifestiamo vicinanza e solidarietà’

Resta in attesa della fine delle indagini in mano alla Polizia cantonale il comitato di Unitas. Lo conferma a ‘laRegione’ l’attuale presidente di Unitas Mario Vicari: «Dopo l’incontro, convocato in seduta straordinaria, che abbiamo avuto nel pomeriggio di oggi (ieri, per chi legge), dopo che ci avete sollecitati per avere da noi una dichiarazione, posso dire che non ci esprimiamo se non dopo l’esito delle verifiche della polizia. Nel frattempo manifestiamo la nostra vicinanza e solidarietà alle persone coinvolte».

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