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Una certa simpatia per rettori e referendum

È arduo identificare una gerarchia: come salvaguardare la salute della democrazia senza proteggere quella dei cittadini?

Boas Erez, rettore dell’Usi
(Ti-Press)
27 novembre 2021
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Finalmente si vota, anche sul (nuovo) referendum contro le (ultime) modifiche alla Legge Covid. Nell’inverno freddo che si profila all’orizzonte, si sentiva il bisogno di questo sano fervore partecipativo. Indubbiamente, la salute della nostra democrazia può e potrà far invidia a molti cittadini di questo Paese: a occhio e croce, anche 10mila al giorno.

A questo riguardo, suscitano un piacevole stupore le parole discese a noi dal rettore dell’Usi, Boas Erez, pubblicate martedì 23 novembre sul Corriere del Ticino. In un altro Paese, magari uno fra i nostri confinanti, avrebbero forse attirato un’altra attenzione, non fosse altro che per la qualità degli argomenti proposti. Ma noi siamo ormai così democratici da non sorprenderci di nulla, o da non notare per forza le parole delle autorità formative. Dopotutto, in democrazia ognuno può dire la sua, piccola o grossa che sia: evidentemente pure il rettore.

La principale preoccupazione di quest’ultimo, conquistato dagli argomenti di Giorgio Agamben, sembra essere che il certificato Covid non abbia tanto lo scopo di combattere il virus, quanto quello di imporre un controllo. Il rettore riesce (quasi) a far sorgere il dubbio che in una società iperconnessa e globalizzata, in cui è cosa normale prendere un aereo per uscire il fine settimana, i due aspetti – politica sanitaria e controllo – siano separabili. Come se “controllo”, in un Paese felicemente democratico, debba tradursi con “oppressione”, mai con “tutela” di un diritto, diciamo di un valore superiore, come la salute pubblica o l’aspirazione di tutti a una vita “normale”.

Il buon ret(t)ore ci illustra anche le ragioni per cui il certificato preclude ai cittadini sani ogni forma di vita sociale (dimenticando solo di specificare che un sano, fosse pure un consigliere di Stato verde speranza, è tale finché non viene contagiato e inizia a contagiare, in virtù della sua vita sociale). Primo: quando si è in gruppo si tende a “mimare” ciò che fanno gli altri. Ecco, dannati austriaci, se confinassimo con il Texas sarebbe tutto più facile. Secondo: il certificato Covid cela una sperimentazione ai fini di un controllo sulla popolazione utile in possibili situazioni di crisi. Terzo: il certificato nasconde il cinismo di chi (chi?) intende promuovere i mezzi di identificazione elettronica. Un timore con tutta evidenza condiviso dai milioni di svizzeri che ogni giorno – oltre a usare bancomat, carte di credito, tessere fedeltà e abbonamenti di vario tipo che analizzano gusti, vizi e movimenti personali – lasciano tracce indelebili di sé acquistando mutande o criptovalute in rete, oppure depositando quotidianamente sui social le loro piccole o grandi verità. Consegnando la propria identità a “ecosistemi” a quanto pare più rassicuranti del nostro Stato democratico.

Pur conservando una certa simpatia per rettori e referendum, l’impressione è che sia arduo identificare una gerarchia fra le forme di salute che andrebbero tutelate: come salvaguardare la salute della democrazia senza proteggere quella dei cittadini? E quando – per tutelare questi ultimi nel loro insieme, come comunità – gli eventi oltre che lungimiranza impongono delle scelte tempestive e il controllo della loro applicazione, una democrazia sana e senza troppi complessi sa riconoscere l’autorità dei pochi che sanno, senza lasciarsi condizionare dai tanti che non sanno o peggio credono di sapere.

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