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Storia di Alfredino che cadde nel pozzo

Dal 10 al 13 giugno 1981, l'Italia intera ne attese il salvataggio davanti al piccolo schermo. Invano. La chiamarono 'tv del dolore', altro non poteva essere.

Alfredino Rampi (Wikipedia)
10 giugno 2021
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“Stamane, l’apertura di questo giornale è dedicata a un fatto di cronaca che da diverse ore sta tenendo tutti col fiato sospeso. Un bambino di sei anni è caduto ieri sera in un pozzo artesiano nei pressi di Frascati, vicino a Roma”. La località precisa è Vermicino, al XVI chilometro della via Tuscolana; e il pozzo artesiano è un concetto da farsi spiegare dai genitori, o da chiedere a scuola, per scoprire che si tratta di una cosa molto, molto profonda. I più grandi lo sanno: in un pozzo artesiano non basta calare un secchio perché un bambino se ne torni su.

Mercoledì 10 giugno 1981, verso sera: Alfredo Rampi, per tutti e per sempre Alfredino, dice a papà Ferdinando che vuole tornare a casa da solo, facendo la strada “che fa da sempre, la strada mamma-nonna”, dice mamma Franca quando, verso le 21.30, spiega alla polizia che Alfredino non può essere andato lontano. Così è: il brigadiere Giorgio Serranti sente un lamento provenire da un pozzo coperto da una lastra di metallo; dentro, 36 metri sotto i suoi piedi, c’è il bimbo che grida e che lì resterà sino a sabato 13 giugno, dopo l’ultimo dei vani tentativi di speleologi, Vigili del fuoco e volontari di riportarlo in superficie. Trentuno giorni dopo la caduta, 28 dopo il decesso, i minatori della miniera di Gavorrano lo riconsegneranno ai suoi cari e a una nazione rimasta incollata alla tv per quattro giorni. ‘La fine dell’innocenza’, l’ha chiamata qualcuno. Per chi ha vissuto, per chi ha guardato e anche per chi ha trasmesso.

Lo Stato

Alfredino che cadde nel pozzo è una storia andata storta sin dall’inizio. Dalla tavoletta calata, nell’immediato del primo soccorso, dai Vigili del fuoco giunti senza torce elettriche (racconterà mamma Franca), un’ancora di salvataggio che s’incastra a una profondità di 20 metri, visto che i pozzi artesiani si assottigliano man mano che si scende; sin da subito, la soluzione deve (assolutamente) essere la realizzazione di un pozzo parallelo al primo, per poi tagliare verso il bimbo, una volta giunti al suo livello; con appello sulle tv private, lo Stato cerca una gru; alle 4 del mattino dopo giunge sul posto la squadra Lazio del Corpo nazionale soccorso alpino e speleologico: Tullio Bernabei, 22 anni al tempo, si cala fino a 2 metri dalla tavoletta e il bambino poco sotto, e gli parla; resta 20 minuti a testa in giù, il tempo oltre il quale ogni speleologo rischia di perdere la ragione e i sensi; Bernabei non è abbastanza magro, e ci prova Maurizio Monteleone; dopodiché lo Stato, nella persona del comandante dei Vigili del fuoco Elveno Pastorelli, ingegnere, invita gli speleologi a farsi da parte; a nulla valgono i suggerimenti anti-trivella della geologa Laura Bortolani, che sa che sotto Vermicino c’è la roccia dura.

‘Un reality show terrificante’

La Rai non è lontana da Vermicino. Raccogliere l’audio che arriva dal pozzo è un attimo. A cominciare dal dialogo tra il vigile del fuoco Nando Broglio, che con Alfredino (la tv rivela che il bimbo è affetto da cardiopatia congenita) riesce a creare un rassicurante, per tutti, rapporto di fiducia. Quell’audio arriva nella stanza della moviola della tv di Stato, dove si montano i servizi. Giancarlo Santalmassi, all’epoca conduttore del Tg2, racconterà trent’anni dopo a ‘La storia siamo noi’, a Giovanni Minoli: “C’erano tutte le teste intorno alla porta della moviola a vedere cosa stava succedendo: quando quella gente lì si fermava, voleva dire che la sostanza c’era. E quella mattina c’era, oh se c’era…”.

Inizia così una copertura tragicamente ‘sanremese’ dell’evento: l’allora direttore del Tg1 Emilio Fede fiuta lo scoop, o forse è solo il dovere di cronaca che viene dalla voce secondo la quale già con la luce del sole si sarebbe a un passo dal recuperare il bimbo; i Tg dilatati, le edizioni straordinarie di Piero Badaloni, che sempre a Minoli dichiarerà, ricordando i momenti più caldi di quei quattro giorni: “Non c’era più nemmeno lo spazio vitale per far passare l’ambulanza, sovrastata da queste 10mila persone che si nutrivano grazie agli ambulanti che portavano panini e bibite. Era diventato un reality show terrificante…». Era diventata la diretta più lunga della storia televisiva italiana, con le ultime 18 ore ininterrotte, davanti a una media di 21 milioni di telespettatori. Da quel giorno, l’avrebbero chiamata ‘La tv del dolore’.


Sandro Pertini a Vermicino (Wikipedia)

Il presidente

Tornando alla cronaca. Alle 19 del 12 giugno, alla 48esima ora, per accorciare i tempi, lo Stato decide di rompere il diaframma, il tratto che va dal pozzo costruito per l’occasione a quello in cui c’è Alfredino. Che non è più dove stava prima, ma è scivolato più in basso. È a questo punto che lo Stato richiama gli speleologi, dando loro carta bianca. Bernabei, il primo a calarsi il giorno prima, scende e con un cordino misura la distanza dal piccolo, che adesso è di sessanta metri dalla luce del sole. Se ogni ‘spettacolo’ ha il suo momento clou, Alfredino che cadde nel pozzo ha il suo punto di non ritorno nel presidente della Repubblica Sandro Pertini, che alla 46esima ora di tentativi fa quel che la Regina d’Inghilterra non aveva fatto con la tragedia di Aberfan, nel 1966 in Galles, quando una montagna di rifiuti minerari travolse 144 persone, di cui 114 bambini, e il Regno Unito attese per otto giorni un segno di vicinanza umana. Il partigiano come presidente (cit), invece, di venerdì 12 alle 16.30, si fa largo tra la folla, affianca mamma Franca e presidia l’entrata del pozzo per non andare più via. Per qualcuno “la sua presenza non fu disinteressata: convinto erroneamente del buon esito dei soccorsi, cercò uno spot che intralciò le operazioni“ (Antonello Piroso su LaVerità di pochi giorni fa): per gli italiani, Pertini fece il presidente di tutti gli italiani. Perché se dalla storia di Vermicino togli Sandro Pertini, che senso avrebbe parlarne ancora.

“Il presidente – ricorda invece mamma Franca nella sua testimonianza – era arrivato sul luogo senza avvertire le autorità presenti. Mi dissero che era ancora lì vicino, in un viottolo di campagna, nascosto perché non voleva farsi vedere dai mass media e non voleva essere d’intralcio con la sua presenza (...) Decisi di andare a parlare con lui, perché avevo visto troppe cose assurde in quei giorni (...) E così feci: raccontai della polizia, della tavoletta, della trivella. Lui mi rispose: ‘Signora sono sconcertato, non so che dirle’ (...) Dopo alcuni mesi ricevetti una sua telefonata e mi disse che per me aveva creato un Ministero”. Quello della Protezione civile, convertito in legge nel 1982. Ma ancora prima, sabato 13 giugno, quando un medico parlerà di “presunzione di morte”, mamma Franca si rivolge alle telecamere per chiedere a tutti di mobilitarsi affinché a nessuno possa mai accadere quanto accaduto al figlio. “Solo dopo potei abbandonarmi al mio dolore”, dirà. Il 30 giugno nascerà il Centro Alfredo Rampi: “Non sono stata io utile al Centro, ma è stato il Centro Rampi che è stato utile a me, altrimenti sarei ancora dentro quella clinica psichiatrica”.

L’Angelo

L’ultima cronaca. Alla 51esima ora, quando anche lo speleologo Claudio Aprile fallisce la discesa, si fa strada tra la folla un 28enne sardo, impiegato come facchino in una tipografia: “Vorrei solo rendermi utile”, risponde a chi gli chiede garanzie sul suo stato di salute: una lampadina in fronte, una corda legata ai piedi, Angelo Licheri – l’Angelo di Vermicino, o L’Angelo di Alfredino – infila tra gli spuntoni di roccia spalle gomiti e fianchi, segnati per sempre, e resta a testa in giù per 45 minuti, oltre il doppio di quanto umanamente consigliabile; arriva al piccolo ormai incosciente, tenta un’imbracatura, prova a mani nude, ma il fango impedisce qualsiasi presa.

“Non mi sento un eroe”, dichiarerà negli anni, “ma una persona che ha fatto il possibile per aiutare un bambino”. E a Fanpage, nel 2018, dirà: “Era talmente facile salvarlo, ma gli ingegneri leggono sui libri, e se io do una zappa a un ingegnere, quello si rompe un piede, o se lo taglia”. Più o meno il concetto espresso da Bernabei: “A Vermicino ci furono errori tecnici, frutto dell’improvvisazione, della pressione. Che mancasse un coordinamento era evidente, così come la scarsa fiducia negli speleologi. Perché doveva essere lo Stato a tirare fuori Alfredino, non quattro ragazzi un po’ capelloni, per quanto esperti”.


Angelo Licheri (Wikipedia)

Diversivo o speranza?

Nell’Italia reduce dal terremoto dell’Irpinia del novembre 1980, la tragedia di Alfredino è anticipata, il 13 maggio del 1981, dall’attentato a Papa Giovanni II in Piazza San Pietro; e dalla pubblicazione, il 21 maggio, degli affiliati alla P2 di Licio Gelli, da cui la caduta del governo Forlani. Alfredino cade nel pozzo nel giorno in cui le Brigate Rosse rapiscono Roberto Peci, fratello di Patrizio, il primo pentito delle Br. I telegiornali, in quei giorni, avrebbero di che raccontare. Ma “i telefoni vibravano, la gente voleva Vermicino, del resto non gliene fregava nulla”, dice Santalmassi. La teoria del diversivo, la ‘Cronaca Vera’ venuta con encomiabile tempismo a distrarre da cose ingombranti come la politica e il mondo della cultura non di meno affiliati alla loggia massonica, si fa strada in quei giorni e ancora non ha smesso di farsi strada oggi. Per Badaloni, del fatto che si parlasse soltanto di Alfredino, fu “una coincidenza, oppure qualcosa di più, ma non spetta a me dirlo”. E ancora: “Dipendesse da me, non rifarei mai quello che è stato fatto”. Per il fu Sergio Zavoli, nel 1981 presidente della Rai: “Non credo si potesse distrarre il Paese. Non c’era un Paese che voleva addormentarsi, ma un Paese che voleva spendere tutto il tempo a disposizione in attesa che si verificasse quell’evento sul quale aveva così tanto investito emotivamente”.

Una storia italiana

“Manca ancora a livello diffuso la cultura della prevenzione”, dice oggi Franca Rampi. E nel gennaio del 2019 diceva: “Se le persone non hanno coscienza, c’è poco da fare. Julen è caduto in un pozzo identico a quello di Alfredino, è stato impossibile anche questa volta salvare il piccolo. Perché bisogna pensarci prima”. Perché anche la Spagna ha avuto il suo Alfredino: si chiamava Julen Roselló García, aveva due anni e nel gennaio del 2019 finì in un pozzo scavato illegalmente a Totalán, Malaga.

Quarant’anni dopo Vermicino, Sky Cinema porta sul piccolo schermo ‘Alfredino - Una storia italiana ’, il 21 e 28 giugno. Anna Foglietta sarà Franca Rampi, donna forte, riservata, divenuta esempio per tutti e sopravvissuta alla tv del dolore. Quella cantata dai Baustelle in ‘Alfredo’ (2008): “E Lui guardava il Figlio Suo / In diretta lo mandò / A tutti lo mostrò / A Forlani e alla Dc / A Pertini e Platini / A chi mai dentro di sé / Il Vuoto misurò”.

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