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L’Arbézie, l’albergo con dentro un confine

Costruito nel 1862 da un contrabbandiere: da lì, in gran segreto, sono passati salumi, diamanti, partigiani e innamorati

Una delle camere dell'hotel Arbézie

Costruito nel 1862 da un contrabbandiere: da lì, in gran segreto, sono passati salumi, diamanti, partigiani e innamorati

“Qui c’è la stanza dove i piloti inglesi volevano fare pipì in testa ai nazisti”. “Qui c’è un nascondiglio dove si potevano mettere i diamanti”. “Qui c’è la finestra finita solo fuori, ma che dentro è uno specchio”. “Qui è dove francesi e algerini hanno fatto gli accordi di Évian prima di andare a Évian”. “Qui c’è la camera dove dormi con la testa in Svizzera e i piedi in Francia”. Qui è sempre lo stesso posto, l’hotel Franco-Suisse de La Cure, sul confine tra Francia e Svizzera. O meglio, è il confine che è dentro l’hotel.

Una storia vecchia ormai quasi 160 anni, su cui si stratificano nuove storie, che siano di guerra, di pace o di pandemia.

Tutto è iniziato nel dicembre 1862 con il Trattato di Dappes, siglato per mettere ordine lungo la linea che divideva la Francia napoleonica all’altezza del comune di Les Rousses e il Canton Vaud. In quell’ordine qualcuno trovò il modo di creare un disordine mai più risolto. Quel qualcuno lo chiamavano semplicemente Ponthus, come un artista o un contrabbandiere. E alla fine era entrambe le cose.

La casa con due ingressi

Ponthus possedeva un terreno proprio dove passava il nuovo confine: ebbe l’idea di tirare su, in tutta fretta, un piccolo caseggiato. Aveva 70 giorni di tempo, gli stessi che passavano tra gli accordi di Dappes e la loro ratifica, avvenuta il 20 febbraio 1863. Al punto 7 di quegli accordi c’era scritto che da quel giorno nulla poteva essere più toccato.

Il caseggiato aveva due ingressi: uno – sul lato francese – divenne quello di un bar; l’altro – sul lato svizzero –divenne l’entrata di un negozio. Quel che faceva in mezzo quelle due porte un contrabbandiere possiamo immaginarlo. “Passavano soprattutto carne, alcolici e tabacco. Ma pure diamanti. Dal lato francese c’è una tradizione nella lavorazione delle pietre preziose, niente di particolarmente pregiato, ma che tornava comodo agli svizzeri per la produzione di orologi”, a raccontarlo è Alexandre Peyron, discendente diretto di Ponthus e attuale proprietario dell’albergo insieme alle sorelle Bérenice, Lucie e Véronique.

Peyron mostra anche un paio di nascondigli dove, in caso di controllo, si potevano occultare gli oggetti più a rischio. “Il bello di questo albergo è che è una sorpresa continua”. A riprova di quel che dice, Peyron indica uno specchio in una stanza che ha il letto in Svizzera, ma il bagno in Francia: “Vedi? Fuori c’è una finestra. I francesi hanno dato il permesso di costruirla, ma gli svizzeri no, così dentro abbiamo dovuto murarla. E abbiamo messo lo specchio”.

Il film culto

I locali dell’albergo sono pieni di queste situazioni paradossali a tal punto che la realtà si rivelò decisamente troppo per la finzione. A rendersene conto, suo malgrado, fu Gérard Oury, regista di uno dei film più amati dai francesi, “Tre uomini in fuga” (“La Grande vadrouille”, con Bourvil e Louis De Funès). La storia rocambolesca dell’hotel ispirò parte della sceneggiatura e così Oury andò a fare un sopralluogo, ma capì subito che l’unicità e le stramberie dell’albergo erano tali da rendere impossibile una credibile trasposizione cinematografica con i mezzi dell’epoca. Era il 1966.

L’idea della fuga nasce con i racconti legati alla seconda vita della casa dei contrabbandieri. Il suo creatore, Ponthus, morì nel 1895 e la gestione passò al figlio Jules-Joseph Arbez, che nel 1921 – esattamente cent’anni fa – aprì l’hotel Franco-Suisse. Negli anni Quaranta il figlio di Jules-Joseph, Max, usa lo stesso principio di nonno Ponthus, ma lo applica alle persone.

Partigiani, piloti e fuggitivi

Gli sviluppi della Seconda guerra mondiale fanno sì che l’albergo si trovi nel punto esatto in cui s’incrociano i confini della Francia libera, della Francia occupata e della Svizzera. Il posto ideale per far passare ebrei in fuga, partigiani, soldati alleati. A rischio della vita, loro, e degli Arbez. “L’hotel continuava a lavorare in quella situazione surreale, al piano di sotto venivano i soldati tedeschi a bere, ma le scale portano sia al secondo piano che in Svizzera. Loro potevano salire solo fino al settimo gradino, non oltre. Lì sopra mio nonno Max e nonna Angèle ospitavano tutti quelli che chiedevano aiuto in attesa del momento giusto per passare il confine.

‘Alcuni piloti inglesi si erano fissati. Volevano urinare sulle teste dei tedeschi. Ma mia nonna non glielo permise’

In una sala da cui si entra dall’esterno, con sulla porta scritto “atelier”, ma che negli anni è stata un po’ di tutto, l’attuale proprietario mostra una botola con un buco. “Alcuni piloti inglesi si erano fissati. Volevano urinare sulle teste dei tedeschi, facendola passare per pipì di qualche animale. Mia nonna però non glielo permise. Le regole, in mezzo a tutti quegli eserciti di passaggio, lì dentro le faceva lei. Sapeva quanto rischiava”. I tedeschi e il regime di Vichy non colsero mai in fallo gli Arbez, ma nel dubbio, a un certo punto, fecero murare il lato francese. Ancora oggi non si sa quante persone siano state salvate dall’hotel durante la guerra, ma sono centinaia. Per questo nel 2012 la comunità ebraica ha dato ai coniugi Arbez il titolo di Giusti tra le Nazioni. E a loro nome ha piantato un albero nel Giardino dei Giusti di Yad Vashem, a Gerusalemme.

Dove nacque l’Algeria

Gli intrecci fra la Storia con la S maiuscola e l’albergo degli Arbez non finiscono con la guerra. Charles De Gaulle li ringrazia personalmente, ma le loro strade s’incroceranno ancora nel 1961. “È proprio in questo hotel che si sono tenuti i colloqui preliminari per gli accordi di Évian”. La firma tra il governo francese e il Fronte nazionale di liberazione algerino, anticamera dell’indipendenza del Paese africano, arrivata di lì a poco, è del 18 marzo 1962. “Quando vennero a chiedere a mio nonno se potevano incontrarsi lì, non ebbe dubbi. Chiese solo che non fosse mai rivelato il luogo degli incontri. Per via della questione algerina avevano assassinato il sindaco di Évian. Il nonno era orgoglioso di avere un piccolo ruolo in quel processo di pace, ma non voleva certo rimetterci la pelle”.

Quattro anni prima, nel 1958, l’hotel era diventato – a suo modo – uno stato a sé, con tanto di nome, L’Arbézie (dal cognome della famiglia), e bandiera (triangolare come il terreno che lo ospita, con un abete rosso su campo giallo). Un’indipendenza che trova riscontro nei fatti, ma non nei documenti ufficiali. E che era sostenuta dal politico francese Edgar Faure, che viveva nel Giura e nell’hotel andava spesso a giocare a carte.

I giocatori di carte

Le carte sono un altro dei simboli dell’Arbézie. Non a caso sulla facciata dell’hotel compare un’enorme riproduzione de “I giocatori di carte” di Paul Cézanne. “Abbiamo chiesto ad alcuni artisti di reinventare quell’opera. Ora una di queste si trova appesa a un muro del bar dell’hotel”. In un punto preciso. Il centro del quadro coincide infatti con la linea di confine. L’autore ha aggiunto un cartello doganale e una riga. A sinistra, in Svizzera, c’è un francese che gioca, dall’altro lato del quadro – e del confine – c’è uno svizzero. “Il motivo? È semplice e complicato, come tutto qui. Era vietato giocare d’azzardo per un francese in Svizzera e per uno svizzero in Francia, ma dal momento che ognuno giocava all’estero con l’avversario in un altro Paese, tutte le regole saltavano”, spiega Peyron.

A proposito di regole. Nel bar ci sono bandiere svizzere e francesi. “In Svizzera la bandiera appartiene al popolo, quindi posso esporla senza problemi, quella francese invece appartiene allo Stato. Ma la bandiera svizzera ha una particolarità, è quadrata. Per simmetria, ma non solo, ho messo i colori della bandiera francese in uno spazio quadrato. E così per chi la guarda è una bandiera francese, ma legalmente no. E nessuno può venire a dirmi di toglierla”.

Gli amanti del lockdown

Il tour continua appena fuori dall’hotel, dove c’è un cippo originale del 1863: di qua la bandiera del Canton Vaud, di là l’aquila napoleonica. In cima, una linea rossa che prosegue – ovviamente – dentro l’albergo. Oltre la parete, nel bar, c’è la copia rivisitata del quadro di Cézanne. Qualche metro oltre, un piano più in alto, le stanze numero 6 e numero 9. Quelle in cui, se ti stendi sul letto, puoi dormire in due Paesi nello stesso momento. E non solo dormire. A questo proposito Peyron ha una storia che arriva direttamente dalla pandemia e dal lockdown dello scorso anno.

“Un giorno vedo arrivare una bella ragazza bionda. Bussa dal lato francese e mi dice che arriva da Nancy. Era appena stata respinta alla dogana. Qua prima non c’era mai nessuno, in quei giorni ho contato fino a 17 doganieri per volta. Comunque, la ragazza se ne stava tornando a casa quando uno dei doganieri si avvicina alla sua auto e le dice che lui non può fare niente, ma forse qualcuno dell’hotel potrebbe aiutarla. Lei non capisce, ma entra. Mi spiega che il fidanzato vive in Svizzera, a due passi da qui. Le dico di posare le valigie e telefonargli”. Risultato: il fidanzato entra dal lato svizzero e Peyron assegna loro la camera numero 9, una delle due in cui si è contemporaneamente in Svizzera e in Francia. “Ho lasciato le chiavi e una bottiglia di champagne. Poi mi sono girato dall’altra parte”. Mentre racconta, sorride: “Noi siamo per la pace, e l’amore e la pace sono concetti molto vicini. Sarebbe stato sbagliato far finta di niente”.

‘La bellezza di questo posto e della sua storia è che tutto si mescola, tutto si confonde, come se quella linea scomparisse’

Dalla stanza numero 6, la gemella di quella della coppia del lockdown, la dogana di La Cure sembra quasi di poterla toccare da quanto è vicina. Un doganiere ferma un’auto e controlla il bagagliaio mentre un signore con il cane si ferma per fare due chiacchiere. Peyron intanto racconta di quella volta che un cardinale in visita ha aperto la porta scorrevole della sala da pranzo e si è trovato davanti un monaco buddista che era lì per puro caso. “Anche quelli erano due mondi, due religioni che si sono date appuntamento sul confine. La bellezza di questo posto e della sua storia è che tutto si mescola, tutto si confonde, come se quella linea scomparisse. È davvero un luogo dove tutto è possibile, e i fatti, finora, continuano a dimostrarlo”.