L'INTERVISTA

Casa Morricone (nel salotto del Maestro)

Sessant'anni di musica, da celebrarsi in Piazza Grande a Locarno il prossimo 20 giugno. Intervista romana al doppio Premio Oscar

11 maggio 2018
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I pini marittimi mescolati al cemento dicono senza discussioni che quella è Roma. La terrazza del Maestro offre visioni di una capitale già estiva, resa tale dall’Anniversario della Liberazione alle porte (tutti via per il ponte) e da un’imminente “notte di coppe e di campioni” (tutti a casa per Liverpool-Roma, musica ‘non assoluta’ scritta da altri). Per intervistare il doppio Premio Oscar c’è un decalogo da rispettare, nel quale spiccano un invito alla puntualità (“is the key with the Maestro”) e un auspicabile “arrivate preparati e non fate sempre le solite domande”, tradotto e in sintesi. Prendiamo posto in poltrona, ripetendo mentalmente altre 2 regole (“non pronunciare mai ‘Spaghetti western’, ma ‘Western all’italiana’, evita del tutto il ‘boulevard style’). Certi della sua fede giallorossa, e in barba al decalogo, la mettiamo sul calcio per rompere il ghiaccio, consci del rischio di essere accompagnati all’uscita ancor prima che l’intervista sia cominciata: «La Roma? Gioca in Inghilterra, mi pare. Se gioca bene, ha buone possibilità di cavarsela. Se l’è cavata anche a Manchester. Era Manchester?». Era Barcellona, Maestro.

‘Musica per film’ e NON ‘Colonne sonore’

«Lei parla bene l’italiano? Che qui non si capisce mai niente», chiede Morricone, che per ogni evenienza linguistica ha una traduttrice in loco. Ci dichiariamo di madrelingua, qualche idioma romanesco e del napoletano geneticamente modificato. «Meglio così, e scandisca bene le parole», risponde. Tra i disappunti di 60 anni di carriera, l’inglese mai imparato occupa un posto molto in alto. E considerando il mezzo migliaio di colonne sonore composte – il decalogo raccomanda “musiche per film” e NON “colonne sonore”, il maiuscolo viene dall’originale – potrebbe non essercene mai stato il tempo. Calcolatrice alla mano, qualcuno ne ha contate un paio al mese. «Ecco, meno male che mi ha fatto una domanda così strana. Prendo l’occasione per spiegare questo mistero. Quando si leggono le musiche che io ho fatto per un film, se ci si basa su quando sono state scritte, si nota che in alcuni casi ho fatto anche 18 o 22 film l’anno. Ma non è vero. Quella è la data nella quale i film sono stati proposti al pubblico, non la data nella quale sono stati scritti. Ci sono cose che avevo scritto anni prima. Io non ho mai fatto più di 12 film all’anno. Al massimo un film al mese. Questa è la media».

Esiste una domanda che non le hanno ancora fatto, Maestro? «Chi lo sa, potrebbero esisterne ancora tante». Ci sentiamo in imbarazzo a parlare – magari banalmente, ma necessariamente – di Oscar. «Quello alla carriera proprio non me l’aspettavo», commenta. «Ma sono sicuro che me l’hanno dato perché mi hanno rapinato quello di ‘Mission’. Credo che col tempo abbiano capito che bisognava riparare all’aver premiato un film nel quale la musica non era proprio originale. Addirittura, la metà delle musiche nemmeno erano state composte dall’autore. Musiche di repertorio, canzoni, il sassofonista che suonava da solo. A mio parere fu commessa una cosa bruttissima, bruttissima». La statuetta dell’87 la ritirò Herbie Hancock per ‘Round Midnight’ di Bernard Tavernier, comunque indimenticabile storia di jazz. Si sente risarcito, Maestro? «Beh, sì. Giusto per averlo lì», l’Oscar, la più prestigiosa delle toppe cucita sopra un torto perpetrato, lo si può dire, all’arte tutta.

Arancia indigesta

Lingua inglese a parte, un piccolo disappunto cinematografico riguarda Stanley Kubrick. «‘Arancia Meccanica’ – racconta – mi fu offerto telefonicamente. Parlai con Milena Canonero, aiutante e costumista di Kubrick. Mi disse che il regista voleva me, e che chiedeva una musica che somigliasse a ‘Indagine’ (‘Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto’ di Elio Petri, Oscar 1971 al miglior film straniero, ndr). In genere questo tipo di richieste non mi piace per niente, non amo la musica imitata. Però sarebbe stata comunque musica mia, e il regista era Kubrick. Mi lasciai andare e dissi “va bene”. Lui chiamò Sergio Leone chiedendogli di poter usare me come compositore. Sergio rispose: “Sta lavorando con me”. In quel momento stavo solo assistendo al missaggio di ‘Giù la testa’. Fu una bugia, che mi danneggiò, il lavoro per Kubrick andò a un altro».

Digressione: nell’autobiografia del 2016, al paragrafo ‘Liti e discussioni’, il Maestro racconta di avere appeso il telefono in faccia a Flavio Mogherini per avergli chiesto musiche “alla Cajkovskij”. Fine della digressione.

Pasolini, Petri, Salce, ‘Peppuccio’

«Ci vuole tempo. Tempo per capire il regista, e perché il regista capisca il compositore. Con Tornatore, dopo 12 film, ci capiamo al volo. ‘La migliore offerta’ (2013) fu tra le cose più importanti fatte per Peppuccio (Giuseppe Tornatore, ndr). Con qualche regista ho lavorato in un solo film, 2 al massimo. Non significa che non sia stata una bella collaborazione. Ma sarebbe potuta andare molto meglio se avessimo continuato a lavorare insieme».

Preso atto dell’affetto per ‘Peppuccio’, sulle affinità con altri registi, Morricone risponde: «Non posso, non riesco a fare paragoni. Posso parlare a livello professionale». Citiamo due voci forti del cinema di denuncia, ostacolate, e a volte dimenticate. E gli chiediamo quanto gli manchino. «Con Petri era tutto diverso, eravamo molto amici. Con Pasolini non c’era un’amicizia. Era persona gentile, molto civile, ma distaccata. Il rapporto fu comunque altissimo. Quando per ‘Uccellacci e uccellini’ (1966) mi suggerì di inserire musiche che lui già conosceva, gli spiegai che ero un compositore, che non prendevo pezzi da mettere nei film. Gli dissi: “Guardi, chiami un altro al posto mio”. Lui mi disse queste parole: “Faccia quello che vuole”. E io feci esattamente quello». Almeno fino al ‘Decameron’ (1971), «nel quale lui, la musica, me la fece trovare direttamente nel film, a volte già cantata dagli attori durante le riprese. Nell’ultimo film riuscii a riprendere la mia capacità decisionale, le musiche furono mie, senza che nessuno mi influenzasse» (si riferisce a ‘Il fiore delle Mille e una notte’. L’ultima collaborazione è ‘Salò e le 120 giornate di Sodoma’, dove alla voce “musiche” compaiono entrambi)».

Parzialmente indotta, arriva la cronaca della separazione da Luciano Salce, non troppo dolorosa, perché «siamo sempre rimasti amici», sin dagli esordi del Maestro nel mondo del cinema ne ‘Il federale’ (1961). «Dopo alcuni film fatti insieme mi fece un discorso. Disse che io non avevo la vena comica. In realtà, con lui la vena comica nemmeno avevo avuto occasione di sperimentarla. Mi disse: “Forse è bene che non lavori con me in nessun caso, perché a me serve qualcuno che scriva bene la musica comica. Da lì, con lui non feci più niente».

‘Si è divertito, almeno un po’, con le canzoni?’

«Ma che divertimento, io lo facevo soltanto per guadagnare!». Il giudizio sugli anni trascorsi come arrangiatore in ambiti ‘leggeri’ è lapidario. L’alto livello di scrittura di quegli evergreen è irrilevante. «Non nego che si trattasse di canzoni ben scritte, ma quegli arrangiamenti avevano per me un significato specifico. Era importante che io sperimentassi alcune cose applicate alle canzoni. Avevo una mia teoria sull’arrangiamento, e cioè che per ogni singolo brano si potesse tranquillamente togliere la melodia cantata, e l’orchestra avrebbe mantenuto egualmente la sua funzione. Cioè, il pezzo si sarebbe retto da solo. Era il mio esercizio personale. Non pensavo in termini radiofonici o televisivi». E quell’idea che “il vero cinema non ha bisogno della musica? Fosse così, oggi non avremmo i suoi capolavori... «È vero, confermo di avere detto quella cosa. E in genere lo penso. Per il film di qualche realista rigoroso, si dovrebbe pensare che l’opera non abbia bisogno della musica. È nascosta, si ascolta, ma non si vede, mentre del film si deve poter vedere tutto, anche i dialoghi. I rigorosissimi di questo pensiero sostengono che la musica sia un di più del quale si potrebbe pure fare a meno. Salvo la musica, per esempio, di una tromba che suona e si vede sul set, la musica di qualcuno che suona al pianoforte. Quella è musica realistica, non altra che viene da un luogo che non si vede e non si sa qual è, e dov’è».

Il Maestro, che ama Picasso – «Se faremo in tempo vedremo la mostra di Lugano» –, sarà a Locarno il 20 giugno per l’unica tappa svizzera di ‘60 Years Of Music’ (www.gcevents.ch, www.ticketcorner.ch). Insieme a 200 musicisti e a un coro, calcherà un palco di oltre 400 metri quadrati, superficie mai allestita in Piazza Grande. Davanti a lui, 5mila posti a sedere. «Proporrò brani tratti dal cinema, e mi pare ovvio», annuncia. A parziale rettifica: «Ma nemmeno tanto ovvio. Io potrei fare anche un concerto di musica assoluta, non cinematografica. Comunque ho scelto le musiche dei film che la gente, in genere, ama. E poi ci sarà anche la musica di certi film che amo soltanto io, e voglio che la gente conosca». Chiediamo se ci sia musica sottovalutata, che magari avrebbe meritato di più. «Certamente, esiste. Ma quella che non è stata compresa non la eseguo, il rischio non me lo prendo (ride, ndr). E poi a disposizione ho 2 ore di concerto, contro un repertorio di, credo, 450 ore. Non posso certo eseguirlo tutto quanto...».

Un’incantevole Frau Blucher dai tratti nordeuropei, dal perfetto inglese e dai lunghi e biondi capelli, ci richiama al rispetto dei tempi. Non c’è tempo per parlare di scacchi, delle sue sfide con Fischer e Kasparov e la ‘patta’ chiamatagli da Spasskij, che per il Maestro vale un altro Oscar. «Scriva questo», dice prima di congedarci. «Scriva che io amo molto la musica e non ne farei a meno per niente al mondo. Però se proprio qualcuno mi chiedesse di rinunciarvi, e scegliere dell’altro, risponderei che vorrei essere un campione di scacchi. Ma non un campione qualsiasi: il campione del mondo».

Così, alla fine, la leggenda era più alla mano del suo (comprensibile) decalogo. Scendiamo ai piani terreni dei terreni ascoltatori, lasciando il Maestro ai suoi energici novant’anni. Più tardi, quando il Liverpool affonderà la Roma sotto una pioggia di reti, da una stanza d’albergo in zona Termini il pensiero tornerà a lui, seduto nella poltrona fiorita color marrone chiaro, così comoda che pareva abbracciarselo, e quasi ci veniva di abbracciarcelo pure noi, il Maestro. A pensarci ora, è il decalogo che ci ha scoraggiati dal farlo (o l’ipotesi di essere arrestati).

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