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‘Il nostro posto è ovunque, anche sul rettangolo da gioco’

Fuggite dall’Afghanistan a causa del ritorno dei talebani, le giocatrici (in esilio) della Nazionale sono in attesa di essere riconosciute ufficialmente

(Australia’s Department of Defence/Twitter)
3 aprile 2025
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Fra poco meno di cento giorni alle nostre latitudini scatteranno i Campionati europei femminili. Una rassegna che spera di cambiare alcuni paradigmi, di abbattere barriere. Da quattro anni, sparse in giro per il pianeta, ci sono però centinaia di giocatrici che non possono rappresentare il Paese in cui sono nate. Che stanno combattendo una battaglia decisamente più grande. Nonostante la Nazionale afghana (Awnt) sia fuggita dalla morsa dei talebani, la scure della sistematica discriminazione di genere riesce a superare ogni confine negando loro il posto che meritano sul palcoscenico internazionale. Fondata nel 2007, l’Awnt era una promessa di uguaglianza. Una sfida diretta all’ideologia del regime fondamentalista, che ha ucciso tutte le velleità di libertà. Libertà da noi ritenute scontate, eppure altrove considerate un crimine. «Il calcio era l’arma più influente che avevamo durante i periodi bui, quando insomma eravamo messe in ombra – spiega Mursal Sadat, pioniera della selezione –. Ora siamo di nuovo confinate a bordo campo, come successo in occasione dell’ultima Coppa del Mondo». Una storia che si ripete. La Fifa infatti chiede il riconoscimento della squadra in esilio da parte della Federazione afghana, controllata dai talebani. Nel frattempo, però, il sorteggio delle qualificazioni alla prossima Coppa d’Asia (che fungerà pure da rampa di lancio in vista dei Mondiali del 2027 e delle Olimpiadi del 2028) si è tenuto senza di loro. È il secondo ciclo da cui sono escluse dopo il ritiro delle truppe occidentali. «Un’altra battaglia che rischiamo di perdere, cinque ulteriori anni della nostra giovinezza. Per noi calciatrici, un’eternità. Apprezziamo l’impegno mostrato dalla Fifa, ma non è corretto quello che abbiamo subìto». La massima istanza calcistica dovrebbe rappresentare la casa di ogni giocatore o giocatrice. Una famiglia che invece «ci ha voltato le spalle proprio quando ne avevamo più bisogno. Ci ha messo quattro anni, prima di realizzare che in Afghanistan fosse in atto una discriminazione di genere».

Fatti, non parole

Lo scorso 21 marzo la Fifa ha infatti risposto alle numerose sollecitazioni della squadra, evidenziando di aver sviluppato un programma che fornisce opportunità calcistiche a tutte le donne afghane. Non ha però specificato la sua reale intenzione di riconoscere ufficialmente le giocatrici esiliate quali rappresentanti del Paese. E sì che la sua politica in materia di diritti umani vieta qualsiasi tipo di discriminazione. Uno statuto che in teoria dovrebbero rispettare tutte le Federazioni affiliate, altrimenti si rischiano sanzioni. Tanto fumo, poco arrosto. Sì, perché questi principi spesso rimangono solo nero su bianco. Il match è dunque attualmente in pausa. «Non abbiamo mai smesso di lottare per un futuro migliore. Per un cambiamento – rincara Mursal –. Non permetteremo che altre subiscano la medesima sorte. Ci è stato puntato un fucile alla testa chiedendoci di obbedire, di rinunciare a noi stesse... Il calcio è molto più di un gioco. È una luce nell’oscurità». Un barlume di speranza per non spezzare le ali pure alle nuove generazioni, che sognano la maglia della Nazionale. «È il quarto anno che alle ragazze non è consentito frequentare la scuola, come possiamo immaginare che i talebani negozino sul calcio? Hanno paura dei nostri diritti e di quello di cui siamo capaci». È sulla medesima lunghezza d’onda Khalida Popal, che sin da bambina ha capito l’importanza ricoperta da questa sfera roteante. Tant’è che, insieme alla madre, nel 2007 ha gettato le basi della selezione femminile, che per motivi di sicurezza doveva giocare fra le mura della base Nato di Kabul. La risposta della Fifa non «soddisfa completamente le nostre attese, ma perlomeno ha compreso i nostri sacrifici, i nostri traumi. È positivo in ottica di una futura collaborazione. La squadra era infatti stata fondata per dare voce alle nostre sorelle ancor prima del ripristino del regime fondamentalista, quando erano in atto casi di abusi e molestie. Abbiamo utilizzato il pallone a mo’ di piattaforma in grado di offrire risonanza e valore alle vittime, alle sopravvissute. Il focus deve quindi essere messo sul benessere delle giocatrici». A causa delle reiterate minacce di morte nonché della paura di rappresaglie sono però state costrette a scappare. «La nostra vita è cambiata nel giro di una notte, abbiamo dovuto lasciare amici e familiari acquisendo una nuova identità come rifugiate. Non abbiamo comunque smesso di lottare per quanto raggiunto e sacrificato. Chi è rimasto in Patria ha perso la sua voce, bandito dalla società: ci è stato detto che il nostro posto è in cucina, ma delle grandi organizzazioni neanche la benché minima traccia. Oggi più che mai abbiamo bisogno di leader, di programmi a favore della parità». Programmi che altre Federazioni potrebbero usare giacché «i conflitti nel mondo sono parecchi. Quanto ci è stato tolto, non dovrebbe più capitare a qualcun altro. Il nostro movimento è mosso dalla forza di volontà di numerose donne. Non può essere fermato solo perché alcuni uomini ricoprono cariche di potere. I talebani non hanno mai creduto nel calcio femminile». Khalida è consapevole «che il contesto è difficile, ma ben venga qualsiasi (piccolo) passo. Ad esempio delle amichevoli», che l’organo calcistico si è impegnato a coordinare oltre che a organizzare campi di allenamento e fornire personale qualificato.

Trofei, palloni e divise bruciati per la paura di essere uccise

Le giocatrici hanno dovuto bruciare le prove delle loro carriere, nascondendosi ovunque in attesa di fuggire. Da paladina delle pari opportunità e primo capitano della Nazionale, la 38enne (da tempo riparata in Danimarca) ha così fondato Girl Power. Un’organizzazione no profit che promuove l’attività sportiva fra le minoranze femminili, aiutando più di 200 persone a scampare alla morte. Fra di loro, Manozh Noori. La sua famiglia era meno aperta e permissiva rispetto a quella di Khalida, tant’è che le minacce – verbali e non – erano sistematiche. Orfana di padre fin da bambina, ma supportata da mamma e sorella, la giovane ha iniziato a bazzicare i campi lontana da casa e camuffata da uomo. Il fratello e alcuni parenti hanno «addirittura cercato di precludermi la possibilità di frequentare la scuola così da imparare a servire il mio futuro marito. Non volevo però rimanere confinata in cucina». Manozh non si è arresa, conquistando il premio di miglior realizzatrice fra le superiori della capitale. «È stato un processo difficile, ma ogni giorno bramavo d’indossare la maglia della Nazionale. Quando ci sono riuscita, la gioia è stata incredibile». La complessa situazione in Afghanistan ha reso viepiù complicato allenarsi, come pure la fuga in Australia. «Ho tuttavia cullato a lungo il sogno di una carriera da professionista. Non ho mai perso la speranza, rinunciato a questo mio desiderio. Ci ho creduto fino in fondo» e, oggi, l’attaccante difende i colori del Craigieburn City. «Il calcio mi ha salvato la vita: grazie a questa passione, ora respiro e abito in un ambiente pacifico».

‘L’impegno della Fifa non basta, urgono programmi’

Fin troppo spesso però la possibilità di praticare un’attività sportiva è condizionata da confini geografici, di genere o politici. «È importante che la Fifa offra supporto nell’organizzare amichevoli o campi di allenamento, ma continuiamo a sperare che riconosca ufficialmente la squadra in esilio. Il suo impegno non è infatti sostituibile all’attuazione di programmi, di cui è finora priva, che assicurino la parità di genere», evidenzia Andrea Florence, direttrice esecutiva di Sport & Rights Alliance. Da quando i talebani hanno ripreso il controllo, la campagna della selezione afghana ha raccolto il sostegno e l’attenzione di tutto il pianeta. Compresi quelli del premio Nobel per la pace Malala Yousafzai e di quasi 200mila persone, che hanno firmato una petizione su Change.org. L’ultimo match ufficiale risale ormai a sette anni fa, la speranza è che una comune sfera roteante possa sferrare un calcio alla cultura oppressa del Paese. Il tutto senza armi potenzialmente letali. «È un atto di resistenza nei confronti dei talebani e di solidarietà nei confronti delle sorelle che ancora vivono in Afghanistan. Il riconoscimento della Fifa sarebbe una potente dimostrazione che i loro diritti non possono essere cancellati», conclude Fereshta Abbasi, ricercatrice di Human Rights Watch. Coraggio, pazienza e speranza. Il calcio è un gioco spensierato, ma che in questo caso ha procurato un dolore immenso. E, allora, che torni a essere l’emblema della libertà. Uno strumento di emancipazione, che ispiri le nuove generazioni e apporti cambiamenti.