La memoria corta del mondo dello sport, in cui paga sempre l’allenatore. Non importa da dove si è partiti, magari senza nemmeno sapere dove voler arrivare
‘Questione di feeling’, cantavano Mina e Riccardo Cocciante quasi trent’anni fa. E una questione di feeling si ripropone nel valutare l’insieme di società, allenatore e giocatori. Lo vediamo in ogni sport, di squadra e no, lo vediamo tutti i giorni a tutte le latitudini e con le stesse frasi: ‘è venuto a mancare il rapporto di fiducia’, ‘non aveva più il polso della squadra’, ‘non c’era più sintonia nel gruppo’, ‘non possiamo rischiare di veder andare tutto a catafascio’... Un ‘non’ all’infinito in un mare di eufemismi e voli pindarici, arrampicate sui vetri e, quasi sempre, contraddittorie con quanto affermato solo due mesi, due settimane o due giorni prima. È il mondo sportivo che è in questa continua centrifuga alla ricerca di risultati, se quelli più immediati ancora meglio. Non importa da dove si è partiti, magari senza nemmeno sapere dove si vuole arrivare. Ogni nuovo arrivo, soprattutto in panchina, porta un bagaglio di speranze che via via si perde se le cose non vanno per il meglio o diventa un improvviso eroe se gli astri gli sono favorevoli, magari con le famose vittorie di ‘corto muso’, che rendono felici solo i numeri della classifica, oltre al posto di lavoro, ma ben poco soddisfano i tifosi.
Poi, in questa giungla di dinamiche spesso deliranti, vengono a incidere i ruoli che ognuno dice di voler rispettare ma che, solitamente, prevaricano. È il caso di molti presidenti che sostengono l’allenatore da loro scelto solo e solamente se si vince: dopo due sconfitte si comincia a dubitare, alla terza sconfitta c’è la conferma che non merita più alcun appoggio e, quindi, va licenziato e sostituito. Ovviamente da un altro candidato che da inizio campionato era a casa ad aspettare il trillo del telefono di qualche immancabile direttore o presidente di uno dei tanti club che sempre navigano a vista. Se poi l’allenatore non è sostenuto dalla dirigenza, ecco che i giocatori si fiondano come avvoltoi sul terreno da gioco con quegli atteggiamenti che sembrano di chiaro sostegno al coach ma che, gratta gratta, si evidenziano con errori pacchiani e atteggiamenti passivi che non fanno altro che mettere alla berlina proprio l’allenatore. La dimostrazione che dietro certi atteggiamenti c’è una chiara volontà, alcuni dicono inconscia – ma ci crediamo poco –, è data dal fatto che con l’arrivo del nuovo allenatore le energie si moltiplicano, si ricomincia a correre e a saltare come grilli, senza che sia poi cambiato moltissimo a livello di allenamenti specifici. Perché in questo gioco delle parti la cosa più importante non sempre è la società, la bandiera per usare un termine caro ai nostalgici, ma il proprio io, il salvarsi la pagnotta: nel caso di un dirigente si tratta di limitare la caduta, certamente non il bilancio (sul quale piange sempre) per il semplice fatto che si vengono a pagare più stipendi fra esonerati e nuovi incarichi.
Si diceva all’inizio che tutto quanto accade in tutti gli sport, in particolare in quelli di squadra, e a tutte le latitudini. Ora, se qualche nostro lettore va a leggere fra le righe di quanto accade nei vari sport anche nel nostro piccolo mondo ticinese, magari troverà delle analogie fra quanto scritto e quanto è successo o sta succedendo da tempi immemori sui differenti campi da gioco. E poi faccia i paragoni che più ritiene opportuni e si chieda perché il suo atto di fede verso un club sia qualcosa di veramente speciale e capace di ‘sorvolare’ su tutte queste dinamiche. È veramente e soltanto una questione di feeling.