Basket

Contro il Covid-19 l'Nba pensa anche al pubblico virtuale

Il commissioner Adam Silver spera di salvare almeno in parte la stagione e ha elencato le tre attuali opzioni per ripartire, tra le quali anche un match per beneficenza

19 marzo 2020
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La Nba spera ancora di salvare "almeno in parte" la stagione interrotta a causa dell'emergenza coronavirus. Lo ha rivelato Adam Silver, patron (commissioner) della lega di basket più prestigiosa al mondo, che in un'intervista all'emittente statunitense Espn ha elencato le possibilità di ripresa di un campionato interrotto lo scorso 12 marzo (a circa due terzi di una stagione che solitamente va da ottobre a giugno) in seguito alla positività al Covid-19 del francese Rudy Gobert, difensore degli Utah Jazz.

«Ci sono tre opzioni sul tavolo - ha spiegato l'avvocato e dirigente statunitense -: ricominciare a giocare con 19.000 spettatori come abbiamo sempre fatto; ricominciare senza i tifosi, con giocatori e staff in campo secondo le indicazioni dei medici; oppure una terza opzione per dare alla gente a casa una sorta di intrattenimento e una distrazione, una partita in cui un gruppo di giocatori possano giocare per beneficienza o per il bene della gente. In ogni caso si potrà tornare in campo solo con il via libera delle autorità sanitarie».

Tra i pensieri di Silver c’è anche la stima che circa 55'000 persone lavorano per la Nba e tra i suoi obiettivi c’è anche quello di trovare un equilibrio tra le questioni di salute pubblica e quelli economici. «Forse quello che possiamo fare è salire gradualmente: il primo passo non può essere subito una partita con migliaia di spettatori, ma forse può bastare la partita. Il 99% delle persone guarda il nostro gioco attraverso una qualche forma di media, solo una piccola percentuale lo fa nelle arene. Forse attraverso la tecnologia possiamo fornire ai tifosi a casa una sorta di contorno "virtuale" che reagisca e faccia lo stesso rumore di un’arena. Negli Stati Uniti abbiamo le migliori menti al mondo: possiamo trovare una soluzione. Siamo stati i primi (nello sport a stelle e strisce, ndr) a fermarci, vogliamo essere anche i primi a ripartire e a rilanciare l'economia».

 

Critiche per i tamponi alle squadre

Dopo la positività di Gobert a cui ha fatto seguito quella di altri sei giocatori (il suo compagno di squadra Donovan Mitchell, Christian Wood di Detroit e quattro elementi di Brooklyn, tra cui la star Kevin Durant), franchigie intere sono state sottoposte al test per il coronavirus, situazione che ha fatto storcere il naso a più persone (compreso il sindaco di New York Bill de Blasio) vista la scarsità di tamponi disponibili negli stati Uniti. «Capisco il suo punto di vista ed è spiacevole che come società ci troviamo in questa situazione con i test, ma il problema fondamentale è che ce ne sono in numero insufficiente - si è difeso Silver -. Noi abbiamo seguito le raccomandazioni degli esponenti della sanità pubblica. Gli Utah Jazz non hanno chiesto di essere testati: è stata la sanità pubblica dell’Oklahoma sul posto a chiedere che lo fossero, e non potevano lasciare lo spogliatoio prima di averlo fatto. E lo stesso è successo per le squadre successive. Capisco perché alcune persone abbiano reagito in quel modo, ma abbiamo seguito le direttive e siamo stati la prima lega negli Stati Uniti a decidere di fermarsi quando le raccomandazioni erano al massimo quelle di giocare senza pubblico».

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