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Daniela Ryf, nello sforzo ci sono gioia e libertà

La solettese nobilita lo sport elvetico ai più alti livelli. Specialista dell’Ironman, vede ancora ‘margini di miglioramento che mi spronano e mi motivano’

8 marzo 2019
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Ha vinto quattro volte di fila l’Ironman delle Hawaii, per cui la tentazione di definirla ‘donna di ferro’ è forte. Scontata, ma calzante, per Daniela Ryf, atleta solettese che incarna l’eccellenza a livello mondiale. In carriera ha già raggiunto vette insperate, ma non ha smesso di lavorare per salire ancora più in alto, convinta com’è che ci siano ancora margini di miglioramento. Anche per una fuoriclasse che pare invincibile. «Nessuno lo è – esordisce Daniela, affabile e solare –, in nessun ambito. Quando partecipo a una gara devo riuscire a dare il meglio di me. Ogni volta è una sfida, perché so che se non do tutto, c’è qualcuno pronto a battermi. Lo sforzo è fisico e mentale, soprattutto in un Ironman come quello delle Hawaii, che si presenta una sola volta all’anno. Alla partenza bisogna essere consapevoli che sarà una lunga giornata, che molte cose possono accadere. La concentrazione deve essere massima già nelle ore precedenti la competizione. Non ci si può permettere di prenderla alla leggera. Se lo fai, sei perdente prima ancora di prendere il via».

Che relazione ha con la disciplina che l’ha resa famosa? «È una passione. Ci sono cresciuta, la pratico da quando avevo 14 anni. Nuoto volentieri, vado volentieri in bicicletta, e amo correre. Ho avuto la fortuna di fare del triathlon la mia professione. Mi piace l’alternanza tra le discipline, la combinazione delle tre che si fondono per dare vita a un solo sport. È una bella sfida, insita proprio nell’esigenza di combinare le tre discipline che lo compongono, affinché il fisico possa rendere al meglio in ciascuna delle tre».

Inevitabile parlare anche di sofferenza. Può essere un piacere? «Non posso dire di soffrire volentieri, quello che invece mi piace è la sensazione che si ha dopo un allenamento molto duro. Tornare a casa la sera, veramente stanco, mangiare qualcosa e sdraiarsi sul divano... Piccole cose che considero una ricompensa. La sensazione di essere sfinita la trovo gradevole. So che per avere successo bisogna soffrire, e lavorare. Ma non lo vedo in chiave negativa. Mi alleno per dare il meglio di me, per fare in modo di migliorare la mia forma. È bello scoprire che il corpo reagisce, permettendoti di fare cose che prima non riuscivi a fare. È una grande soddisfazione, il cui prezzo è un po’ di sacrificio in allenamento».

Andare oltre i limiti significa avere anche un grande mentale. «Il triathlon è una questione di rigore e applicazione. Si può andare lontano, se si mettono in campo volontà e applicazione. Serve anche del talento, è chiaro, soprattutto se si ambisce all’élite mondiale, ma nel triathlon per lo più vince chi lavora con maggiori rigore e impegno. La componente mentale è fondamentale. La parte difficile è l’allenamento, il duro lavoro è alla base del successo. Se a una gara arrivi impreparato, non avrai nessuna possibilità. Non è possibile ingannare il fisico in uno sforzo di più di otto ore. La competizione è lo specchio della qualità del lavoro svolto in preparazione. Vince quello che è meglio preparato. Un buon mentale ti sprona a continuare a spingere in allenamento anche quando sei stanco, in un contesto in cui sei per lo più solo con te stesso, senza pubblico, senza incoraggiamenti o applausi, lontano dalla luce dei riflettori».

In quale ambito dà il meglio di sé? Allenamento o gara? «Mi alleno molto volentieri, mi piace accorgermi che sono sempre più in forma. Ma ho bisogno delle corse, per motivarmi. Non farei tutto quello che faccio se non avessi davanti un obiettivo preciso, una gara. Un traguardo è necessario, per le motivazioni. La competizione è lo show in cui scarico quello che ho dentro, e sul quale ho lavorato in preparazione. In allenamento non sono mai del tutto convincente, ma faccio il mio lavoro in vista della gara che diventa il momento e il luogo in cui devo mostrare a che punto sono. La competizione non è la parte più dura, bensì quella più bella. Come detto, mi alleno molto volentieri, e continuerei a farlo anche se non avessi più gare da disputare. Solo che non lo farei così duramente (ride, ndr)».

Tanti titoli, tanti riconoscimenti... Daniela Ryf è orgogliosa? «Tutti gli atleti di punta devono esserlo, almeno un po’. Non ho mai avuto la presunzione di vincere tutto, o di diventare campionessa del mondo. Volevo solo capire quanto lontano potessi arrivare, quali traguardi potessi tagliare. Sono nata con questo fisico, è il presupposto iniziale. La domanda che mi sono posta è “cosa farne?”. Un quesito che mi ha sempre affascinato. Non è per orgoglio che competo, tuttavia non posso che ammettere che quando in ballo c’è un primo o un secondo posto, beh quella gara la voglio vincere io, e faccio di tutto per mettere in campo le mie forze e prevalere. In questo, sì, c’è sicuramente del sano orgoglio. Misurato, però. Fosse esagerato, verrebbe meno la gioia. Non si riuscirebbe a praticare uno sport come il triathlon così a lungo, se non si provasse anche gioia, nel farlo. Oggi per me è un lavoro, ma senza gioia non avrei successo».

‘Ho la sensazione di non aver ancora raggiunto il massimo’

Campionessa del mondo, numero uno della disciplina... Dove trova gli stimoli per nuove sfide? «Nella concorrenza – spiega Daniela –. Ci sono molte avversarie giovani e di livello affamate di successo. Se divento pigra, in un attimo sparisco dalla scena. Il triathlon è onesto: chi lavora duramente può restare ai vertici, chi specula sparisce in fretta dai radar. Inoltre, ho la sensazione di non avere ancora raggiunto il massimo delle mie prestazioni. La scorsa stagione è stata super, ma sono convinta di avere dentro ancora qualcosa di inespresso, e questo mi motiva a continuare a rilanciare. I margini ci sono, lo sento, ma per fortuna non so quali siano, e così continuo a cercarli. Infine, c’è la gioia. Non devo più dimostrare nulla. Le prime vittorie ottenute le ho già confermate ampiamente. Questa dinamica ha riguardato le prime due stagioni, ma oggi posso godere di quanto faccio, ed è una sensazione meravigliosa, che mi motiva ancora di più. Non lo faccio perché devo, bensì perché voglio».

Si è già lasciata alle spalle molti uomini, anche di valore. Il confronto la intriga? «I risultati degli uomini mi motivano. Vedere all’opera i migliori specialisti mi porta a chiedermi come mai il loro livello sia così alto, e cosa posso fare io per cercare di avvicinare quei tempi. La donna ha degli atout interessanti che rendono il confronto particolarmente stimolante. Credo di poter avvicinare i tempi degli uomini, ma non per batterli – pensare di farcela è irrealistico –, bensì per vedere quanto vicino si può arrivare. Qualche anno fa una donna in un Ironman concedeva 45 minuti, oggi il divario è sceso attorno alla mezz’ora, e credo che sia possibile scendere ancora. Lo trovo appassionante. Il tempo in sé nel triathlon dice poco, perché può essere condizionato da fattori esterni, in primis il meteo. Il confronto diretto, invece, è sempre lo stesso: le condizioni sono le stesse per tutti».

Molto nota a livello mondiale, si è costruita una bella immagine. Si sente un esempio? «Non mi reputo poi così importante. Posso ispirare qualcuno, questo sì: è bello incontrare persone e sentirsi dire che hanno iniziato a fare sport seguendo il mio esempio, che ispirandosi a me hanno fatto qualcosa di positivo per la loro salute. Cerco di essere un esempio positivo, per quanto posso. Ho una responsabilità nei confronti di chi prende spunto dal mio lavoro. Ma non sono perfetta, sia chiaro. Faccio anch’io le mie belle sciocchezze. Ai miei inizi entrai in un club, da ragazzina, e fui seguita da alcuni adulti che mi indicarono la via da seguire per diventare l’atleta che sono poi diventata. Quegli insegnamenti cerco ora di trasmetterli a mia volta ai giovani. Voglio restituire qualcosa ai ragazzi che si avvicinano al mio sport. Li voglio motivare. Che diventino sportivi d’élite o no, non fa alcuna differenza».

‘Mi piace allenarmi in piena libertà, senza troppi condizionamenti tecnologici’

Un Ironman è lungo, sfiancante. A cosa pensa durante una gara? Ha il tempo di avere dei pensieri? «Penso a un sacco di cose, ho tanto tempo per farlo. Pensieri negativi e positivi si alternano, a seconda del grado di stanchezza, delle sensazioni in gara. C’è l’angioletto su una spalla che pensa positivo e mi sprona a continuare a spingere, ma sull’altra c’è il diavoletto che controbatte. A me aiuta cercare di non fare emergere i pensieri negativi, concentrandomi su cose belle che stanno per accadere a corto termine, passo dopo passo. Può anche essere solo il prossimo rifornimento, il cui avvicinarsi può fungere da motivazione. La situazione ideale, però, presuppone che non si pensi troppo. In gara, cerco quindi di recitare un copione che scorre via, da solo, senza per forza che debba influenzarlo io. Così facendo, si rende di più e si avverte meno il dolore. Non è semplice, però: distrazioni e pensieri negativi sono sempre dietro l’angolo».

Due edizioni dei Giochi, nel 2008 e 2012. Tuttavia il sogno olimpico di cui tanto si parla non è per forza il sogno di Daniela Ryf. «Ho già dato. A Pechino fui settima, al termine di una gara che reputo perfetta. A Londra andò meno bene, anche perché ero ammalata. Il triathlon appartiene al passato, nel frattempo ho avviato una nuova carriera. Indietro non torno. Sento che con le lunghe distanze sto facendo quello che mi si addice di più. Andare tanto per partecipare ancora non avrebbe senso. Ci sono tante corse alle quali desidero partecipare, ed è su queste che mi concentro».

Nuoto, bicicletta e corsa. Una definizione per ciascuna disciplina. «Il nuoto ha molto a che vedere con la passione: staccare, lasciarsi trasportare... Nuotare mi rilassa. La bicicletta è energia, forza, muscolatura. È il mio punto di forza. Nella corsa vedo la prestazione e l’efficacia: è il settore in cui la gara si decide. È la disciplina in cui mi alleno più volentieri, perché ti dà sempre la sensazione di aver raggiunto qualcosa di concreto. In pochi minuti si può fare molto e diventare molto stanchi».

La tecnologia ha fatto passi da gigante, ma il rapporto di Daniela Ryf con orologi e pulsometri non è così scontato. «Non sono contro la tecnologia. Ci sono aspetti che riesce a curare molto bene. Uno di questi è l’aerodinamica in bicicletta, fondamentale. Ma per quanto attiene agli orologi da polso, sono dell’idea che troppi dati non facciano al caso mio. Le pulsazioni le devo controllare, in allenamento, ma in gara preferisco non avere riferimenti. Sono convinta di poter andare più velocemente senza avere rilevamenti che condizionerebbero la mia prestazione. In gara, andare oltre i propri limiti è sempre possibile. Con un’idea precisa dei watt o delle pulsazioni, si corre invece il rischio di farsi condizionare. È un limite che non voglio. Anche in allenamento è bello non sapere tutto. Bisogna cercare di andare al massimo, ed è per questo che è meglio non badare troppo ai rilevamenti cronometrici. Possono anche risultare frustranti, e insinuare dubbi e negatività che non giovano certo alla prestazione. A me piace uscire, e godere dell’allenamento che faccio, in piena libertà».

Tanti risultati già raggiunti, ma ancora molti obiettivi da perseguire. «Ho ancora molto da dare, come atleta ho voglia di svilupparmi ancora molto, in una continua sfida con me stessa, per capire fin dove mi posso spingere. Il mio obiettivo è correre gare delle quali la gente possa ricordarsi a lungo. Inoltre voglio ottenere altri risultati importanti e contribuire alla crescita di giovani talenti».

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