L'editoriale

Cos’è la destra, cos’è la sinistra

1 ottobre 2014
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Chi ha archiviato troppo presto la secolare lotta tra capitale e lavoro giudicandola ormai anti-storica si dovrà ricredere. La remunerazione del capitale sta vincendo su quella del lavoro e anche con ampio margine. E non sono i nostalgici di Karl Marx ad affermarlo ma un capitalista finanziario del calibro di Warren Buffet. “C’è una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra, e stiamo vincendo”, è la frase attribuita a uno degli uomini più ricchi del pianeta. E uno degli alleati in Europa del capitale si chiama politica di austerity o del rigore, a seconda se si preferisce l’inglese o l’italiano.

Il rigorismo dei conti pubblici proposto dalla Germania e supinamente accettato dagli altri ‘soci’ della moneta unica europea (non bisogna dimenticare che sotto i vari trattati europei, da Maastricht al più recente ‘Fiscal compact’, c’è la firma di tutti i capi di governo dell’eurozona, nessuno escluso) non fa che accelerare il divario tra chi ha e chi non ha. Tra chi ha accesso alla formazione, alla cultura e chi invece quel diritto lo vede sempre più rimpicciolito fino a scomparire del tutto. E anche questo non lo dicono degli inguaribili e anti-storici vetero marxisti-leninisti, ma economisti borghesi e di stampo liberale come Paul Krugman e Joseph Stiglitz. La politica del rigore e dei tagli – affermano i due premi Nobel – deprime sempre di più i diritti fondamentali dei cittadini più poveri, quali quelli al lavoro, all’istruzione e alla sanità e rende impossibile la ripresa delle economie periferiche dell’eurozona, condannandole a depressioni senza vie d’uscita.

Il rigore è parola impegnativa e non indica soltanto una politica economica generalmente votata al risparmio, quindi al taglio delle spese inutili o cosiddette improduttive. Anzi in questo senso sarebbe anche rispetto del denaro dei contribuenti che deve essere usato dai governanti con parsimonia sì, ma comunque a beneficio della collettività. Per un bene superiore. Diventa un totem, un idolo pagano, quando è fine a se stesso. Che senso ha “mettere in sicurezza il bilancio pubblico”, come si usa dire spesso, quando poi si lasciano cadere i cittadini più deboli? Ciò equivale semplicemente a rassicurare i creditori (possessori del capitale) sul fatto che il debito e i relativi interessi saranno onorati, a qualsiasi costo sociale. E gli esempi in Europa si sprecano. I greci, i portoghesi, gli irlandesi, gli spagnoli, gli italiani, sono coloro che più di tutti stanno pagando il prezzo dell’austerity. Per rimanere all’Italia la disoccupazione giovanile sfiora il 50% e mai, nella storia recente di quel Paese, è stata così alta. Intere generazioni perdute e sacrificate sull’altare del rigore, del rispetto degli impegni presi in sede comunitaria e della regola ‘plumbea’ anziché ‘aurea’ del pareggio dei conti pubblici inserito nella Costituzione. Pareggio ottenuto grazie a pesanti manovre fiscali (in teoria riduzione di spese, ma in realtà prevalentemente con aumenti della pressione fiscale sui redditi più modesti). Recentemente il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha addirittura proposto di aumentare l’aliquota Iva minima sui beni di prima necessità per allinearla a quella europea, più alta ovviamente. Una proposta da premio Nobel. Eppure in un’economia dove i consumi diminuiscono da anni bisognerebbe semmai abbassare le aliquote Iva. In due anni, dal 2011 al 2013, l’aliquota massima è passata dal 20 al 22% e sempre perché l’Europa lo chiedeva e i creditori fremevano di paura da spread. Certo che con la sinistra europea in maniche di camicia ‘rigorosamente’ bianca, il capitale finanziario brinda.

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