L'analisi

L’appestato della porta accanto

La diffusione del coronavirus ha avuto tra i suoi effetti la desolante conferma dell’automatismo difensivo per il quale il pericolo viene dagli altri

29 febbraio 2020
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Non è la peste, ma ha i suoi appestati. La diffusione del coronavirus su scala sempre più estesa ha avuto tra i suoi effetti la desolante conferma dell’automatismo difensivo per il quale il pericolo viene dagli altri, in chiunque dei quali si può nascondere un appestato, un untore, come lo si voglia chiamare. Dai cinesi, agli italiani, a scalare fino al vicino di casa o al collega di lavoro.

Un riflesso condizionato che intanto manifesta il primato della paura sulle convinzioni (e passi: bisogna esserci dentro per giudicare) ma che diventa grave responsabilità quando si trasforma in politica. Politica di nota ferocia e di non meno lampante stupidità, che solo quando ormai è tardi scopre che ‘chiudere fuori’ è lo stesso di ‘chiudersi dentro’: insieme al virus. Come forse hanno capito, (forse) i campioni italiani delle frontiere chiuse, e chissamai che ci arrivino anche i loro emuli a nord della ramina.

Ma questa rischia di rimanere una polemica spicciola, se non la si inquadra in uno scenario generale che ne avvalori i contenuti. E allora proviamo a indicare tre temi decisivi di questo inatteso stress test in tempo reale.

Intanto la Cina. Intesa non solo come area di sviluppo del virus che poi ha preso le strade del mondo, quanto come regime, la cui natura autoritaria spiega il ritardo e la reticenza con cui è stata riconosciuta la portata dell’infezione. Quella del Partito comunista non era sollecitudine mirata a non provocare panico tra la popolazione, ma evidente censura di una realtà che contraddiceva le verità ufficiali, fino all’arresto dei sanitari che avevano avvertito della gravità del caso. Il capomissione dell’Oms in Cina ha avuto un bel lodare l’efficacia dei provvedimenti adottati (ospedali edificati in tempi record, circoscrizione delle aree del contagio), tacendo però che il ritardo con cui si è dato il nome giusto alla cosa ha consentito che dilagasse. Qualcuno si è spinto a paragonare il silenzio iniziale della Cina a quello dell’Urss subito dopo l’esplosione a Chernobyl. Suggestivo, ma fuorviante: il disastro del 1985 accelerò una fine annunciata; mentre non sarà il Covid-19 a far cadere l’impero cinese.

Il secondo tema è l’inadeguatezza delle ideologie cosiddette sovraniste (e delle politiche che ne discendono) alle dinamiche di un mondo dove gli effetti di una pur minima azione si riverberano a decine di migliaia di chilometri di distanza. Figuriamoci un virus. Inadeguatezza a cui corrisponde la sempre più fragile azione degli organismi sovranazionali, un tempo designati a provvedere al bene e secondo l’interesse comune, e oggi ridotti all’irrilevanza dalla disputa di influenza tra questa e quella potenza. I costruttori di muri potranno forse rallentare gli spostamenti di migliaia di migranti, ma nella stessa aria che respirano potrebbero inalare (o diffondere) il contagio. Mentre un’Oms preoccupata soprattutto di “non disturbare il conducente” si baloccava tra epidemia, pandemia, forse questa o quella.

Terza questione, quella che è già stata chiamata “infodemia”: lo scialo di parole, dette e scritte, sulla vicenda. In gran parte di seconda mano e, complici i tempi serrati della produzione di news, non meditate. Anche in questo caso, una certa “sete di sangue” che caratterizza l’informazione è entrata in cortocircuito con quella ancora più efferata dei social. Rimettendoci peraltro in termini di affidabilità e distinzione, ma soprattutto concorrendo a distrarre da una possibilmente cosciente e corretta informazione sul fenomeno, dalla sua gravità alla sua controllabilità.

Difficile uscirne, davvero. Perché, sì, non moriremo di coronavirus, ma quanti acciacchi ci tireremo dietro.

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