Se qualcuno ritiene ancora che l’esito dell’elezione presidenziale americana dipenda dalla performance dei due candidati nel corso di uno stucchevole dibattito televisivo, continui a crederlo. Ma in un’epoca in cui sui cosiddetti social le dis-notizie corrono alla velocità dei bit; mentre internet si è definitivamente affermato come contenitore e veicolo di ogni sorta di teoria indimostrabile e inconfutabile; quando basta un Assange in cerca di vendetta per mostrare al mondo gli scheletri contenuti negli armadi (della signora Rodham in Clinton, nel caso), non si può, francamente, assegnare a un’ora o due di talk show il valore che le tv venditrici di spazi pubblicitari gli attribuiscono. Bisognerebbe semmai dubitarne. Il ‘New Yorker’ ha definito quello andato in scena domenica il più sgradevole di tutti i tempi, coerentemente con una campagna tra le più indegne. Il solo motivo di interesse, e di preoccupazione, è la sua natura di prova generale del futuro. Il posto nella Storia e il peso geopolitico degli Stati Uniti non possono che amplificare fino a condizionare le sorti del resto del pianeta l’esito di una dinamica peraltro nota e diffusa in larga parte del “nostro” mondo: il confronto, al momento insanabile, tra un “sistema” determinato a garantire la propria esistenza – a dispetto dei fallimenti e dei costi enormi in termini sociali e ambientali che ha prodotto – e una sedicente alternativa priva di contenuti, se non quello della propria presunta estraneità al sistema suddetto (che va sotto il nome onnicomprensivo di “populismo”). Il duello Clinton-Trump ha dunque significato non per quanto si siano detti davanti a un pubblico preparato e pagato all’uopo, ma perché rappresentano questa incomunicabilità. La novità di questa tornata elettorale è piuttosto la relativa facilità con cui un vanesio e ignorante riccone sia riuscito a presentarsi come paladino antisistema, giungendo sulla soglia del sancta sanctorum del sistema stesso. Portatovi, non impedito, da una ben calcolata manifestazione di istinti belluini, indole autoritaria e da un linguaggio osceno che a molti elettori delle fasce sociali declassate e impaurite non forniscono alternative politiche o semplicemente di “speranza” (ci manca solo questa, direbbe Karl Marx rivoltandosi nella tomba), ma combustibile per alimentare il fuoco del risentimento, sia esso razziale o confessionale o di classe. Perché il tempo è questo, purtroppo: quando si può comperare, sottocosto, la vita di milioni di persone, non dovrebbe stupire che chi è abituato a farlo “comperi” anche donne. E se ne vanti. Chissà quanti ex “blue-collar” ridotti a radunare carrelli fuori da un Walmart lo invidiano per questo. Cose già viste, per dire, in Italia. E, tuttavia, l’effetto dirompente della comparsa in scena del personaggio Trump è tale che persino il suo stesso partito, spinto all’estrema destra dalla crescita delle sue componenti più radicali (e che pure si vorrebbe alternativo a quello di Clinton, ma entro i confini della praticabilità di sistema, di una assicurata continuità oligarchica), teme ora di finirne vittima collaterale, perdendo seggi preziosi alla Camera dei rappresentanti e con essi la maggioranza nel Congresso. I giochi, perciò, non si fanno né si decidono sulla scorta di uno o tre confronti televisivi. Questo è contorno. Trump, in altre parole, ben difficilmente vincerà le elezioni avendo contro non tutti, ma quanti bastano di quelli che contano (elettori compresi). In senso stretto, le serate di milioni di americani davanti alla tv per vederlo duellare con Clinton gli varranno un “io c’ero” e poi addio. In un senso più esteso, il suo “esserci stato” parla di un pericolo scampato per gli Usa e un mondo che non per questo resta meno guasto.