Prima il forcing sul dialogo con l’Iran, poi la stretta di mano con Raúl Castro. Decisamente, per essere un’‘anatra zoppa’ – come gli americani definiscono un presidente a fine mandato e indebolito da una maggioranza parlamentare ostile – Barack Obama è un’‘‘anatra zoppa” che corre. È anche l’Obama che molti avevano sognato fuori dagli Stati Uniti, e che al momento della conquista della Casa Bianca venne virtualmente quasi plebiscitato dal pubblico europeo. Insomma, l’Obama davvero innovativo, coraggioso e spregiudicato che molti avrebbero voluto già dalle mosse iniziali della sua presidenza, e non nel suo precipitoso finale. Questo è stato anche il rimpianto di molti estimatori della prima ora, poi disillusi. Ma era non conoscere bene il personaggio, e il suo tenace pragmatismo, nonché sottovalutare quanto le dinamiche e le costrizioni della politica mettano innumerevoli paletti lungo l’accidentato sentiero di una svolta che – anche dopo le fessure aperte nei muri di Teheran e dell’Avana – è lontana dall’essere compiuta. Si potrebbe anche rimproverare a Obama che è facile, e comodo, adottare storiche decisioni quando non si è rieleggibili, non si hanno preoccupazioni elettorali, e di quelle decisioni non si dovranno governare le conseguenze. Ma sarebbe ingeneroso, e soprattutto ingiusto. Sul piano interno, la riforma dell’assicurazione sanitaria così incomprensibilmente osteggiata da tanti americani anche non abbienti, e sullo scacchiere internazionale la promessa mantenuta di porre fine alle guerre sbagliate del suo predecessore, ci hanno per esempio offerto anche l’immagine di un capo della Casa Bianca oscillante fra ideali e realpolitik, ma certo non pavido o solo opportunista. ‘Esiste una dottrina Obama?’, ci si è dunque e di nuovo chiesti nel momento in cui lo stesso si attiva per chiudere i conti di una certa storia (anche in questo caso sbagliati) con Cuba e con l’Iran. Quella dottrina esiste e, come lui stesso l’ha sintetizzata nell’ultima intervista al ‘New York Times’, vuole essere il risultato della prima presidenza americana de-ideologizzata. Quindi, pur nella convinzione della “indispensabilità” e della centralità degli Stati Uniti, una presidenza meno reticente nell’ammettere il fallimento di certe scelte. Soprattutto nel caso di Cuba, la constatazione che la politica delle sanzioni e dell’embargo che ha impoverito gli abitanti dell’isola non ha certo fatto cadere il castrismo: semmai ha costretto l’Avana a non allentare la stretta sui diritti umani, ad obbligate scelte di campo internazionali, e comunque non ha impedito di garantire ai cubani scolarità e cure mediche invidiate in gran parte delle Americhe (non dice nulla il fatto che l’età media della mortalità a Cuba sia esattamente quella che hanno gli Stati Uniti?). È vero, Obama ama presentarsi come l’uomo delle grandi visioni, che tuttavia lasciano poi il posto a strategie politicamente anche “aggressive”, dall’Ucraina al Pacifico. C’è quindi da andar cauti anche sulle svolte di questi ultimi giorni. Si dice che l’incontro con Raúl cacci in soffitta l’ultima guerra fredda, ma intanto un’aria più che gelida spira dal fronte russo. Si ipotizza che la mano tesa a Teheran possa stabilizzare il Medio Oriente insanguinato, ma non è assolutamente certo che serva a pacificarlo, anzi. Spesso, abbattere i muri non basta. E le eredità di uno statista si misurano solo nel tempo. Anche se Obama riesce finalmente a conquistare un pezzetto di quel Nobel della pace che gli venne assegnato “preventivamente” nel 2009. E lui fu probabilmente tra i primi a capire che più che un riconoscimento era un imbarazzo.