Serve al più presto chiarezza sulle presunte (inopportune) chiamate del presidente del Consiglio della magistratura a deputati a sostegno di una candidata
È importante che si faccia al più presto la massima chiarezza su quanto solleva la recente interpellanza dell’Mps e cioè le presunte telefonate del presidente del Consiglio della magistratura Damiano Stefani a deputati della commissione ‘Giustizia e diritti’ per convincerli a proporre al Gran Consiglio l’elezione di uno dei quattro candidati alla successione del giudice Giorgio A. Bernasconi in seno al Tribunale d’appello. Se fossero avvenute, quelle assai inopportune chiamate costituirebbero una manifesta violazione della separazione dei poteri, perché in Ticino il reclutamento di procuratori e giudici spetta, piaccia o no (a noi piace sempre meno), unicamente al parlamento, come da Costituzione vigente. Eventuali ingerenze sono inaccettabili, specie se commesse da un potere giudiziario (o da una parte di esso: stando a indiscrezioni, avrebbe usato il cellulare anche qualche altro magistrato) che, rivendicando a ragione autonomia e indipendenza, chiede alla politica di non sconfinare. Medesimo discorso dovrebbe dunque valere per il potere giudiziario. Così come non sono ammissibili interferenze all’interno della magistratura stessa: sono trascorsi cinque anni ma ancora ci ricordiamo degli indebiti messaggi via WhatsApp dell’allora presidente del Tribunale penale cantonale in occasione del rinnovo delle cariche al Ministero pubblico.
Dal passato al presente. Il problema persiste: è l’attribuzione al Gran Consiglio della procedura di nomina delle toghe. Lo riconosce, ci pare di capire, anche l’organo che vigila sul funzionamento dell’apparato giudiziario. Scrive il Consiglio della magistratura nel rendiconto 2024: “A complicare le cose vi sono pure le regole della politica e di ripartizione dei posti disponibili in base all’appartenenza partitica, che non sempre consentono di riuscire a eleggere” il candidato migliore. Per il Cdm “sarebbe importante, nell’interesse del buon funzionamento della giustizia, fare in modo che anche chi non è iscritto a un partito possa avere pari opportunità rispetto a chi vi è affiliato. L’appartenenza a una corrente piuttosto che all’altra dovrebbe essere l’ultimo criterio da applicare, a parità (vera) di competenze”. Siamo d’accordo. Peccato che nel caso della sostituzione di Giorgio A. Bernasconi il presidente del Cdm abbia sponsorizzato, sempre che le telefonate ci siano state, una candidata alla presidenza della Camera di esecuzione e fallimenti del Tribunale d’appello priva dell’esperienza, una lunga esperienza, che altri due aspiranti magistrati scartati dalla commissione parlamentare ‘Giustizia e diritti’ hanno invece maturato nel settore. Il settore appunto dell’esecuzione e fallimenti, fondamentale per l’economia di un Paese. Dove stia l’auspicata “parità (vera) di competenze” è arduo dirlo.
Si sta rivelando poi una pessima decisione quella presa nel 2019 dalla ‘Giustizia e diritti’ e dalla Commissione di esperti di cancellare dal ‘preavviso’ di quest’ultima la formula “particolarmente idoneo”. Oggi il parere dei periti sul candidato si limita a “idoneo” o “non idoneo” alla carica. Il che, in presenza di più idonei, non agevola le scelte dei deputati ed espone la procedura di designazione a ingerenze politiche e di altra natura. E spiega anche il numero solitamente basso di aspiranti magistrati quando si apre un concorso: chi è disposto a vedersi oggetto di trattative fra partiti? E allora, a quando l’introduzione di modalità di reclutamento che premino esclusivamente preparazione e buonsenso di chi punta al Palazzo di giustizia e scongiurino indebite ingerenze? La domanda si trascina da decenni.