laR+ IL COMMENTO

Biancaneve, Neracarbone e la favola senza lieto fine

Le tante polemiche che accompagnano il film, e in particolare quelle sulle origini dell’attrice Rachel Zegler, ci mostrano la polarizzazione della società

In sintesi:
  • Il film ‘Biancaneve’ è insipido come quasi tutti i remake in live-action di Classici Disney.
  • Ma è un caso da studiare per le tante polemiche che ha sollevato, in particolare sull’attrice protagonista Rachel Zegler.
  • Già negli anni Quaranta si era consapevoli che il film rappresentava solo una parte della società americana.
Rachel Zegler
(Disney)
26 marzo 2025
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Nel 1937 ‘Biancaneve e i sette nani’ cambiò la storia del cinema, aprendo nuove prospettive all’animazione (fino a quel momento dominata dai cortometraggi comici), portando allo sviluppo di nuove tecniche e contribuendo a trasformare la Disney da piccola casa di produzione nella multinazionale dell’entertainment che conosciamo oggi. Il film fu portavoce dei valori con cui la società americana cercava di reagire alla Grande crisi: onestà, senso della comunità e duro lavoro, sia quello in miniera dei nani sia quello domestico di Biancaneve. Poi certo, il film si ritrova a condividere altri valori, e pregiudizi, dell’epoca; del resto, proprio negli anni in cui Walt Disney lavorava su Biancaneve veniva messo a punto il famigerato Pil, decidendo di escludere dal calcolo del Prodotto interno lordo il lavoro di cura non remunerato, insomma i nani sì e Biancaneve no.

‘Biancaneve’, il remake in live-action appena arrivato nei cinema, difficilmente cambierà la storia del cinema. Cosa del resto vera per praticamente tutti i rifacimenti “dal vero” dei classici Disney che abbiamo visto negli ultimi anni: produzioni che si limitano perlopiù a qualche aggiustamento per venire incontro a un pubblico certo più esigente e smaliziato, ma anche tendenzialmente nostalgico. Nessuno di questi film ha davvero cercato di dire qualcosa di nuovo, con le parziali eccezioni di quelli dedicati ad alcune antagoniste (Malefica di ‘Cenerentola’ e Crudelia della ‘Carica dei cento e uno’).

Cinematograficamente poco significativo, e con risultati di botteghino discreti, il ‘Biancaneve’ del 2025 sarà probabilmente ricordato e studiato dal punto di vista del marketing: è raro vedere un’operazione commercialmente sicura trasformarsi in un potenziale disastro. Se all’inizio l’unico rischio sembrava essere indispettire quella minoranza così fedele alle tradizioni da non tollerare che questa volta Biancaneve non spazzi lei la casa dei nani ma insegni loro come usare una ramazza, dall’annuncio all’uscita in sala si sono aggiunte tutte le controversie possibili e immaginabili, dalla rappresentazione dei nani (ora creature fantastiche a dire il vero un po’ inquietanti) a Gaza, con la “divergenza di vedute” sulle responsabilità di Israele tra le due protagoniste Rachel Zegler e Gal Gadot. Ma il tema più caldo riguarda l’attrice che interpreta Biancaneve, quella Rachel Zegler la cui pelle era troppo chiara per interpretare Maria nel ‘West Side Story’ di Spielberg e adesso troppo scura per Biancaneve. Perché in questo 2025 in cui il famigerato woke – termine con cui si indicano genericamente, e dispregiativamente, tutte le istanze egalitarie – è opportunisticamente additato come la più grande minaccia per l’Occidente, una attrice di origini colombiane (e polacche da parte di padre) è inaccettabile prima ancora di vederla recitare.

E dire che già pochi anni dopo l’uscita di ‘Biancaneve e i sette nani’ era chiaro, quanto quel racconto rappresentasse solo una parte della società americana, tanto che nel 1943 la Warner Bros realizzò una satira del film Disney riadattando la storia alla cultura afroamericana. ‘Coal Black and de Sebben Dwarfs’ (che potremmo rendere con “Neracarbone e li sedde nani”) è infarcito di stereotipi tanto da essere stato ritirato dalla circolazione per il suo contenuto razzista, ma nasceva da una consapevolezza che oggi è diventata terreno di scontro.

Così, la morale di questa ‘Biancaneve’ in live-action rischia di essere senza lieto fine: mostrarci che neanche l’industria culturale riesce più a costruire un racconto condiviso.