Dopo mesi di polemiche e sospetti, ora anche l'Agenzia mondiale antidoping ha emesso una squalifica nei confronti di Jannik Sinner
Secondo i parametri del buon senso, Jannik Sinner è stato considerato innocente. La Wada, l’agenzia antidoping mondiale che aveva fatto ricorso alla sentenza del Cas, ha riconosciuto che Sinner “non aveva intenzione di barare e che la sua esposizione al clostebol non ha fornito alcun beneficio in termini di prestazioni, avvenendo a sua insaputa”.
Secondo i parametri della giustizia sportiva, però, Sinner è stato ritenuto colpevole. Anzi, si può dire che lui stesso abbia riconosciuto la propria colpevolezza accettando di patteggiare per risolvere anticipatamente una questione che si stava trascinando ormai da mesi, gettando un’ombra sulle sue vittorie – 7, di cui 2 Slam – da aprile a oggi. Così Sinner sarà squalificato per tre mesi, fino al 5 maggio: salterà alcuni tornei ma nessuno Slam, e nemmeno il 1000 casalingo di Roma.
Bisogna subito chiarirci le idee sul concetto di patteggiamento. Sinner non ha riconosciuto la propria colpevolezza tout-court, non ha cioè riconosciuto di essersi volontariamente dopato per ottenere dei vantaggi. Il comunicato della Wada esclude anzi questo scenario. Sinner ha riconosciuto la propria responsabilità oggettiva: la negligenza rispetto al controllo sul proprio staff e alle sostanze che possono contaminare il proprio corpo.
Questa distinzione, questa sfumatura di colpevolezza, va tenuta presente all’interno di una vicenda di per sé complessa e sfumata, nonostante in molti vogliano raccontarla come bianca o nera. Essendo il numero uno al mondo, Jannik Sinner è un tennista divisivo. C’è chi ama la sua serietà, la sua dedizione al lavoro, il suo tennis veloce e lineare; c’è chi invece mal sopporta tutto questo e lo ritiene ipocrita, moscio, noioso in campo e fuori. Questa seconda parte di opinione pubblica in questi mesi ha cercato di venderlo come il cocchetto delle istituzioni, il tennista dei poteri forti.
L’altra parte ha invece cercato di difenderlo con atteggiamenti settari e talvolta aggressivi, parlando di Sinner come di un santo. I primi reclamavano una punizione “esemplare”, una squalifica lunga anni; i secondi pretendevano che Sinner uscisse dalla vicenda illibato, senza perdere punti o tornei. Non è un caso se nessuna delle due fazioni sia rimasta soddisfatta dal patteggiamento, che però accontenta le parti in causa. La Wada è riuscita a esibire il proprio potere, in un momento storico in cui rischia di diventare irrilevante; Sinner salta una parte di stagione poco rilevante e vede comunque riconosciuta la propria tesi difensiva. In più riesce a sottrarsi prima del previsto a una vicenda complessa da gestire psicologicamente.
Con uno sforzo di realismo, è così: Sinner non poteva non essere squalificato, con le regole vigenti, e il patteggiamento arriva anche per evitare il rischio di un processo che sarebbe potuto durare ancora a lungo. Questi tre mesi sono del resto poco più di una condanna simbolica, ma il piano simbolico pesa sul numero uno al mondo. Non sappiamo come questa vicenda cambierà l’immagine di Sinner, intossicando i discorsi attorno a lui. Per questo è difficile non essere amareggiati per la squalifica di un atleta senza colpe sostanziali, condannato per avere una quantità infinitesimale di un doping obsoleto, finita nel proprio corpo tramite la ferita sul dito di un suo massaggiatore. Sotto le lenti del buon senso il caso appare in tutta la sua luce grottesca, un punto di partenza per riformulare i protocolli anti-doping, oggi inadeguati al loro scopo.