laR+ IL COMMENTO

Stati Uniti, Israele e l’ombra del ventennio

Alcuni studiosi hanno abbandonato ormai la loro consumata cautela per sostenere che il germe del fascismo ha contaminato l’Occidente

In sintesi:
  • Da Robert Paxton a Robert Kagan, passando da John Kelly, Federico Finchelstein e Timothy Snyder
  • Le loro considerazioni allungano ombre sulla reale consistenza delle democrazie e della convivenza tra umani
Per Robert Paxton , il punto di svolta è la marcia su Washington dei Proud Boys trumpiani con il mancato golpe del Campidoglio nel 2021
(Keystone)
10 febbraio 2025
|

Trump il nuovo volto del fascismo? Interrogativo a cui un numero crescente di voci autorevoli dà oggi una risposta affermativa. Tirannide dunque non più solo tra le teocrazie islamiche, a Mosca o Pyongyang: il fascismo sarebbe ora approdato sulle rive del Potomac. Fenomeno che riguarda pagine tragiche vissute attorno alle due guerre mondiali, il fascismo conoscerebbe una nuova ‘golden age’.

Certo, stanare analogie storiche tra due epoche tanto diverse è operazione zeppa di insidie. La metafora della celebre civetta di Minerva (dea della sapienza) invocata da Hegel due secoli fa serve da monito: l’uccello notturno che spicca il volo solo all’imbrunire, ci ricorda che ci vuole tempo per capire cosa sta succedendo. Dunque niente verdetti frettolosi.

Eppure non sono rari gli studiosi che oggi abbandonano la tradizionale cautela per sostenere che il germe del fascismo ha ormai contaminato gli Stati Uniti. Nella lunga lista degli storici che puntano sulle analogie col cupo passato italo-ispanico-tedesco, un nome su tutti, quello stranoto di Robert Paxton, che ha trascorso la sua lunga vita a raccontarci i misfatti di camicie brune e nere. Oggi ne è convinto: la marcia su Washington dei Proud Boys trumpiani con il mancato golpe del Campidoglio nel 2021 costituisce il punto di svolta: “Cadono le mie obiezioni sulla definizione del trumpismo come forma di fascismo”.

Antiparlamentarismo, nazionalismo, superiorità razziale, prevaricazione, maschilismo, violenza verbale. Da John Kelly, ex ‘chief of staff’ di Trump, a studiosi quali Timothy Snyder (Yale), non è più solo la pancia a parlare: il termine viene usato in un’accezione che vuole essere rigorosa. Nel suo tormentato percorso ‘revisionista’, Paxton si spinge fino a scrivere che se Hitler fu nominato da Hindenburg e Mussolini da Vittorio Emanuele III, Trump essendo eletto dal popolo “ha una base sociale molto più solida di loro”.

Chiari prodromi di derive che ricordano il ventennio, si riscontrano anche in Israele, alleato di Trump nello spregio degli stranieri e del diritto internazionale. Zeev Sternhell, il maggiore storico israeliano del fascismo, aveva ravvisato in alcune prese di posizione dei politici (tra cui l’attuale ministro Smotrich) “la crescita del fascismo e del razzismo israeliani che ricordano il nazismo degli albori”. Parole pesanti. Benché “ultra-sionista”, come amava definirsi, Sternhell considerava che i coloni sono “un cancro” e che la società israeliana stava sacrificando la dignità delle persone sull’altare di una sorta di superiorità razziale.

Le messe in guardia, coraggiose e autorevoli, non sono nuove: nel primo dopoguerra personaggi del calibro di Hannah Arendt e di Albert Einstein, guardiani della grande tradizione umanista e illuminista ebraica (calpestata oggi da Netanyahu) avevano tacciato di “terrorista e fascista” il futuro premier Begin. Oggi è addirittura il falco Benny Morris a interrogarsi sul clima di accettazione tra la popolazione israeliana, di fronte alle uccisioni di massa, alla brutalità e alle torture da parte dei soldati. “Non è ancora in corso”, scrive con genuina sofferta inquietudine, ma è possibile che nell’indifferenza “un genocidio si stia profilando all’orizzonte”. Ripensamento e monito da parte del più noto storico israeliano e che alla stregua di quelli di Robert Paxton, suona come un fragoroso grido d’allarme.