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Le parole che restano, da Luis Sepúlveda a Erminio Ferrari

Scrittori che con un occhio nel microscopio e uno nel telescopio hanno saputo analizzare le storture del mondo e orientarci verso la sua poesia

(Foto ©Guanda)
23 gennaio 2021
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‘Ritratto di gruppo con assenza’ è un libro di racconti di Luis Sepúlveda, ma potrebbe anche essere l’ultima fotografia dell’anno che ci siamo appena lasciati alle spalle. Lunga è stata la lista di sottrazioni con cui abbiamo dovuto fare i conti. Tra di esse quella della stesso scrittore latinoamericano, portato via dalla pandemia lo scorso aprile nel pieno di una primavera alle nostre latitudini di una bellezza a tratti dolente. Quasi esattamente sei mesi dopo, in quel mondo alla fine del mondo che a loro modo sono le creste delle montagne, un’altra penna preziosa ha fermato il suo corso. Quella di Erminio Ferrari che sulle colonne di questo quotidiano si occupava delle pagine di Estero analizzando gli squilibri al di là di quei confini ai quali per tutta la vita è appartenuto. Confini, nel senso concreto ed esistenziale, popolati anche da molti personaggi della sua produzione narrativa. 

Fuor di fatalità, tra queste due morti c’è stata quella di un uomo il cui nome, assieme alle sue ultime parole registrate in un video dalla visione difficile da sostenere, ha fatto il giro dei continenti ridestando molte coscienze sopite. Si chiamava George Floyd ed è diventato il simbolo di come il presente americano, e in generale quello occidentale, per certi versi funzioni ancora secondo i rapporti di potere della schiavitù e del colonialismo.

Nel brano da cui la raccolta di Sepúlveda prende il titolo, ‘Ritratto di gruppo con assenza’ appunto, l’autore narra il proprio ritorno in Cile per la prima volta dopo 14 anni d’esilio. Mappa del suo viaggio, in un Paese profondamente mutato dagli sconvolgimenti della dittatura di Pinochet, è una vecchia fotografia di cinque bambini sorridenti che ha deciso di rintracciare per immortalarli nuovamente. Ce ne racconta le vicende e la Storia in cui sono rimasti impigliati. Tra di loro uno mancherà all’appello, ucciso all’età di 15 anni da un ‘carabinero’ per aver rubato un sacchetto della spesa al mercato. Ucciso perché povero, Marcos; ucciso perché nero, George Floyd.

In continuazione perdiamo pezzi di umanità, non è successo solo nel 2020, anche se la portata è stata maggiore e l’abbiamo sentita con più forza nella sospensione globale delle nostre traiettorie. La campana suona per tutti, fa parte dell’esistenza e bisogna accettarlo. Ma ci sono situazioni in cui a decretare la condanna di donne, uomini e bambini sono fattori come la condizione socioeconomica, le origini, il genere di appartenenza, l’orientamento sessuale, che gerarchizzano l’accesso ai diritti e il valore delle vite. E questo no, in una società che si vuole civile e democratica non è accettabile. Lo hanno sempre sostenuto con impegno sia Luis Sepúlveda che Erminio Ferrari, con i loro stili personali accomunati da una postura etica inequivocabile e una partecipazione sincera nel raccontare le vite più umili, dal vecchio che leggeva romanzi d’amore, al cerimoniere incaricato dei riti funebri. Guardando oltre i buchi da loro lasciati nel ritratto, questo ci rimane: un mosaico di parole capace di rifletterci e indurci a riflettere, tenendo “un occhio nel microscopio e uno nel telescopio”, per dirla con Eduardo Galeano. Un’eredità a cui ricorrere per meglio orientarci verso un mondo che sia “la casa di tutti, non la casa di pochi e l’inferno di molti”.

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