Commento

Francesco Guccini, ottant'anni tra la via Emilia e il West

Questo ha fatto il 'Maestrone': ha raccontato storie. Con una poetica rara, sottovalutata, da esistenzialista innamorato della vita, delle libertà e dei diritti

Ti-Press
14 giugno 2020
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A Bologna, in via Musolesi, appena fuori dai viali, c’è un luogo dell’anima. Uno di quei posti che in un pugno di metri quadri definiscono una città, narrano decenni di storia, spiegano umori e movimenti, parlano di vita. È una trattoria, ‘Da Vito’. Una di quelle trattorie con le chiazze di sugo sulle tovaglie, i fiaschi di vino che arrivano a tavola quando chiedi il rosso della casa, lo stinco di maiale sempre caldo. Francesco Guccini, 80 anni oggi, lì era ospite fisso. A pochi metri, Via Paolo Fabbri 43. La casa dalla quale, nei lunghi anni bolognesi, il ‘Maestrone’ ha riempito di fotografie in musica tutto ciò che lo circondava. Con l’arte che solo il cantautore ha nel raccontare la vita attorno, a denunciare con le parole, a usare teneri versi come una clava nei confronti di certa politica e certi usi.

Perché belle le osterie, le cantate fino a notte fonda e la poesia ma quando c’era da prendere posizione in una delle città più comuniste d’Italia sull’occupazione della Cecoslovacchia da parte dell’Unione sovietica Guccini prese chitarra, carta, penna e scrisse il lirico attacco frontale di ‘Primavera di Praga’; quando l’aborto era ancora illegale e le battaglie del Partito radicale iniziavano a creare quella breccia che avrebbe portato alla sua legalizzazione compose ‘Piccola storia ignobile’, collage di vicende collegate all’aborto scritto con una delicatezza unica, non urlando ma raccontando drammi consumati nell’indifferenza, dolori vissuti accompagnati dal silenzio; quando ha voluto narrare la vicenda di Ernesto ‘Che’ Guevara lui, socialista libertario e tutto fuorché comunista, ha raccontato l’uomo senza cliché di sorta né agiografie politiche; quando c’era da raccontare la deriva che sì, già allora, stava prendendo l’umanità, ‘Il vecchio e il bambino’ fu con straziante realismo un perfetto vademecum mai studiato abbastanza.

Perché questo ha fatto Guccini ogni volta che ha scritto una canzone o un libro: ha raccontato storie. Con una poetica rara e sottovalutata, da esistenzialista profondamente innamorato della vita, delle libertà e dei diritti. ‘Anarcoide’ per sua stessa ammissione, ha mostrato come una storia da raccontare superi sempre il contesto nella quale ha preso forma. Sono istantanee di persone non messe in posa i suoi brani, poesie di gente qualunque, dove protagonista è tutto e ogni cosa. Per non parlare della “casa sul confine dei ricordi, la stessa sempre come tu la sai” che descrive in ‘Radici’. La casa che vede lo scorrere di generazioni, “come il fiume che ti passa attorno”, a cui chiedere se riconosce in lui qualche segno del passato. Delle radici che affondano nell’umida e vera terra di quella quasi natìa Pavana nella quale è rintanato da una ventina d’anni, in quell’Appennino povero, nebbioso e freddo che l’ha visto crescere e protagonista dei gialli scritti a quattro mani con Loriano Macchiavelli, o della lunga fila di aneddoti e racconti d’infanzia di “Tralummescuro”. Dopo essersi stufato di comporre canzoni, scrivendo libri ha dato continuità alla sua capacità di descrivere il tutto in poche parole, condensando universi di emozioni in forme sempre diverse: ‘Parole troppo grandi per un uomo’.

Che sia in trattoria, nelle battaglie di Marco Pannella ed Emma Bonino, a Bologna, Praga, Bisanzio, Pavana, Auschwitz o Venezia Francesco Guccini ha toccato con delicatezza i sentimenti che accompagnano l’esistenza. Non li ha messi sotto lente d’ingrandimento, né sezionati. Li ha raccontati. Quelli belli come quelli dolorosi. Tutto ciò che compone una vita.

“Il bimbo ristette, lo sguardo era triste, gli occhi guardavano cose mai viste. E poi disse al vecchio con voce sognante: ‘Mi piaccion le fiabe, raccontane altre’”.

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